Sono Marianna.
A 22 anni ho sofferto di bulimia. Oggi ne ho 30, ho comprato casa in campagna e mi sono sposata.
Quando all’epoca dell’università ho cominciato a non mangiare, a riempirmi il piatto di verdure ed ad evitare tutto il resto. Quando ho iniziato a tenere ogni cosa sotto un controllo maniacale e ho iniziato, lentamente e gradualmente, a scomparire, mio padre diceva che ero “in forma”, che ero “bella così magra” ed era convinto che lo stessi facendo volontariamente per perseguire la mia, così apparentemente sudata, magrezza.
Nessuno in casa mia si è mai accorto che poteva esserci qualcosa, o qualcuno, dentro la mia testa che sceglieva ogni giorno per me di non mangiare. Fino a quando, una sera d’inverno, sono scoppiata a piangere davanti a un piatto di pasta e fagioli per la paura nell’affrontarlo, e lì mia sorella ha dato inizio al mio percorso di terapia.
Quando soffri di un disturbo alimentare non riesci a parlarne. Non riesci nemmeno a respirare, in realtà.
I DCA ti fanno vivere in un senso costante di apnea. La vita scorre su un filo sottile che va dalla solitudine all’ansia della socialità. Ogni messaggio di invito per un aperitivo, una serata fra amiche, una pizza in compagnia, cela dietro di sé un uragano di domande e di paure, che nulla hanno a che fare con la vita che una ragazza dovrebbe vivere a vent’anni: “Cosa si mangerà? Si mangerà anche il dolce? E se mangio la pizza, cosa accadrà? Cosa dovrò fare il giorno dopo per evitare il senso di colpa?” e le risposte divengono inopinabili conclusioni: “Non vale la pena uscire e “sgarrare”. Meglio stare in casa, al sicuro, con i miei piatti sicuri, conditi in modo sicuro, evitando qualsiasi cosa possa darmi ansia”.
Perché è di ansia che si parla, per me. Non di timore di “sgarrare” per ingrassare o di mangiare una fetta di torta perché “mi viene la pancia”. La “pancia”, nel mio caso, era l’ultimo dei pensieri. È l’ansia che fa da padrone su tutto. L’ansia, prima, e il senso di colpa, dopo: quello che ti porta a compensare per rimanere apparentemente “perfetta”, dentro e fuori.
Ricordo una sera
Era un sabato e io, come ogni sera, ero a casa. Mia mamma mi ha chiamata chiedendomi se potesse tornare a casa con del cibo cinese d’asporto. Mi ha chiamata per chiedermi il permesso, per sapere se potessi mentalmente affrontare una cena a sorpresa, perché di questo si trattava. Se ci ripenso, mi commuovo.
Oggi, mi commuovo. In quel momento, invece, ricordo di essere andata nel panico. Di aver pianto e di averla supplicata di non farlo. La cena di quel sabato sera è stata infatti pesce bianco e verdure. Non purè. Perché il purè già veniva percepito dalla mia mente come un qualcosa di “troppo”. Un qualcosa che non potevo al tempo tollerare. Era questo il modo, dolce ma deleterio, che aveva la mia famiglia per starmi vicino: scegliere, più o meno consapevolmente, di accontentare la malattia dentro la mia testa anziché contrastarla.
Poi è arrivata la terapia
Quando abbiamo capito che in me c’era un problema, che non ero una malata immaginaria come tutti sotto il mio tetto pensavano io fossi, e hanno deciso di farmi iniziare un percorso, ho conosciuto una donna incredibile, la più incredibile dopo mia madre; una donna che ha messo tutta se stessa per togliermi dal mare in tempesta e farmi arrivare alla terra ferma, non con dolcezza o pietismo, ma con rabbia e determinazione.
“Devi combattere contro i cavalloni perché nessuno combatterà per te”, mi diceva. Ed è grazie a lei che ho capito che il problema non ero io, ma che ero cresciuta in un ambiente che mi aveva fatta diventare problematica.
Il mio problema con il cibo non è mai stato un vero e proprio problema con il cibo. Era un problema con me stessa. Con il controllo che dovevo esercitare sulla mia vita e al quale l’irrazionale voglia di “mangiare”, che era una semplice “voglia di essere felici”, sfuggiva.
Una volta realizzato che la mia depressione aveva un’origine parentale, ben prima che alimentare, la guerra verso il cibo è finita ed è iniziata quella verso i miei familiari. Accusavo mio padre di essere il colpevole di tutto, di esser stato lui, con le sue manie ossessive di controllo, a dare vita al mio stesso ossessivo controllo sul cibo. Di conseguenza accusavo mia madre di essere troppo concentrata su se stessa e di non essersi accorta di nulla, e che era colpa sua se mi ritrovavo in quel buio pozzo senza uscita.
Ho messo me al primo posto
Del mio ragazzo, poi, sarebbe preferibile non parlare. Lui era il primo complice, quasi artefice, della mia depressione. Lui che mangiava le fette biscottate con il tè perché erano “più sane dei biscotti”, quando per me il biscotto era solo simbolo di felicità e spensieratezza; lui, che con le sue frasi forse involontarie ma di certo autoritarie, stava iniziando a implementare in me il modello del “sano e magro”, in contrasto con il mio “felice e inconsapevole” incarnato fino a quel momento.
È lì, davanti a quella sfida magro VS felice, che la bulimia ha iniziato a mettere radici dentro di me.
Dopo 3 anni fatti di odio, di amore, di pianti irrefrenabili, di sorrisi effimeri, di ore di terapie e di altrettante ore di non terapia perché “non serve a niente, non ci sono progressi e stiamo e spendendo soldi inutilmente”, come diceva mio padre, ho deciso di tagliare l’arteria che mi portava il sangue avvelenato e ho mollato, in maniera irreversibile, il mio ragazzo.
Mi sono liberata
È stata una liberazione, non perché non stessi bene con lui o non si prendesse cura di me, ma perché il suo modo di accudirmi era in realtà una forma di controllo, una prigione nella quale io ero una sua detenuta e lui, che possedeva le chiavi della mia cella, veniva sempre prima di me.
Mi aveva instillato l’idea che io avessi un problema per ogni cosa e che soprattutto io avessi la colpa di ogni cosa. Bevevo un calice in più? Avevo un problema con l’alcol, che dovevo controllare. Volevo mangiare il dolce anche se ero sazia? Avevo un problema con gli zuccheri, al quale dovevo stare attenta. Facevo battute al cameriere per essere simpatica?
Avevo un problema grave di attenzione. Per tutte queste colpe, e altre scatenate da mie frasi e miei atteggiamenti, venivo punita con il suo silenzio. Nessuna discussione accesa, nessun confronto, nessun messaggio: lui semplicemente spariva. Io passavo giorni a struggermi, ad auto flagellarmi perché, pensavo, “è colpa mia; ho rovinato tutto; potevo stare zitta; potevo non dire quella cosa” fino a quando lui non mi graziava con il suo perdono e si rifaceva vivo, invitandomi a cena. Io ero la sua prigioniera, e lui il mio carnefice. Ci ho messo un po’ a capirlo, ma quando finalmente, grazie alla terapia, l’ho fatto, ho preso una decisione irrevocabile e ho messo me al primo posto.
Ho deciso che il problema non ero io bensì lui, e tutto ciò che gli ruotava intorno
Dicono che sia così la libertà: che capisci di essere libero quando inizi a respirare a pieni polmoni. E lì ho riscoperto finalmente i miei.
La rabbia mi ha tenuta in vita per 6 lunghi anni e oggi con questa stessa rabbia, mia salvatrice, convivo. A volte forzatamente, altre volte con simpatia perché so che è lei a farmi sentire così e, anche se è strano da dire, mi fa sentire esattamente quello che sono: una guerriera sopravvissuta alla guerra più dura e cruda che possa capitare, quella con la propria testa.
Arriva però un momento in cui i DCA smettono di essere un qualcosa di insormontabile: s’impara ad accettarli, a capire che esistono, che non sono frutto della nostra immaginazione e che fanno parte della nostra storia. Arriva un momento, in sintesi, in cui riscopri la vita.
A settembre 2022 ho sposato Matteo
Matteo non è stato il principe che mi ha salvata. Matteo è stato molto di più: è stato quel porto al quale ho attraccato e dal quale non mi sono più allontanata.
Da quando Matteo è nella mia vita non ci sono più stati sabati sera con il pesce bianco e la verdura al vapore. In realtà, nemmeno i lunedì, i martedì, i mercoledì e i giovedì sono più così.
Con Matteo la vita è spensieratezza e felicità, che passa attraverso il suo “e il dolcetto?” chiesto con sorrisetto sghembo a fine di ogni cena e le sue colazioni fatte di latte, biscotti e Nesquik, perché le “fette con la marmellata sono tristi”.
Matteo mi fa sentire esattamente la persona che sono, la sopravvissuta alla guerra, il connubio tra luce ed ombra; per lui le cicatrici sono quel particolare che mi rendono quella che sono, non un problema. E le cicatrici esistono, sono reali, le vede. Per Matteo non sono solo un frutto dell’immaginazione, e forse è da qui, da questa constatazione fatta alla luce del sole, che ho iniziato a vivere per davvero.
Gratitudine
Sono grata a Matteo per la sua capacità di sdrammatizzare, per il suo ridere di gusto quando, dopo tre giorni di vacanza in cui mangio gelato dopo pranzo e dopo cena e piango perchè mi faccio prendere dallo sconforto, lui ci scherza su e mi dice che sono solo matta. Grata per il suo vedere le “ombre”, parlare delle ombre quando serve, senza dar mai loro troppo spazio.
Forse è solo un vero uomo, senza dover dimostrare di esserlo, e mi dispiace non averlo conosciuto prima, quando mi perdevo dietro quei finti uomini che si limitavano solo a dimostrarlo, senza esserlo.
Oggi ho 30 anni e vivo in una casa in campagna con Matteo, il nostro cane, la nostra sudata felicità e la mia simpatizzante rabbia nel sottoscala, pronta a uscire ogni volta che qualcosa prova a nascondere quel colorato arcobaleno che si vede, non più solo nella mia testa, all’orizzonte. “Anche se non è bella o perfetta. Anche se è più dura di quanto vorresti che fosse, la tua storia è quello che hai, quello che avrai sempre. Non dimenticarla mai.”
(Michelle Obama)
L’articolo è stato scritto da Marianna, volontaria dell’Associazione, che ha raccontato la sua storia