Raccontare i disturbi alimentari non è semplice. Sono fasi complesse, cariche di difficoltà, a volte troppo dure da raccontare. Ma raccontare i disturbi alimentari attraverso una favola, delicata come vento tra le foglie di un albero, può aprire orecchie e cuori all’ascolto e alla comprensione. Può farci comprendere cosa i disturbi alimentari sono, oltre i libri diagnostici e dentro la vita di chi li ha esperiti.
La favola di Maya per raccontare i disturbi alimentari
C’era una volta, in un grande giardino al margine del bosco, un piccolo bruco di nome Maya.
Era nata su una foglia grande e verde, in una famiglia ordinata, educata e piena d’amore. La sua mamma era splendida: luminosa, forte, attenta. La proteggeva da tutto, anche da ciò che non si vedeva.
Amava con regole precise: “Non si fa così”, “Si sta composti”, “Questo sì, quello no”.
Maya si sentiva al sicuro in quell’amore fatto di limiti. Ma, col tempo, qualcosa cominciò a muoversi dentro di lei.
Un giorno, mentre tutte le piccole larve giocavano, Maya rise forte. Forse troppo. Sentì su di sé degli sguardi. Uno, in particolare, le sembrò diverso: più lungo, più pesante. Le si chiuse la gola. Aveva fatto qualcosa di sbagliato?
Fu allora che lo sentì per la prima volta: un piccolo buco.
Un buco che Maya cercava di riempire
Non era fame, non era dolore…Era vuoto.
Quel buco compariva ogni volta che si sentiva inadeguata, fuori posto, sbagliata.
All’inizio bastavano due foglioline per farlo passare. Poi tre. Poi cinque. Maya iniziò a cercare altre cose: briciole, bucce, polpa di frutti appassiti. Anche quando non aveva fame, masticava. Per non sentire.
Crescendo, divenne un bruco perfetto: gentile, studiosa, sempre sorridente. Era amata da tutti. Ma quel buco, invisibile agli altri, cresceva con lei.
Poi arrivò il tempo delle trasformazioni. Le sue amiche costruirono i bozzoli e ne uscirono farfalle leggere, colorate, splendide. Maya provò. Si allenava. Correva. Si sdraiava immobile sperando di cambiare. Ma nulla.
Il suo corpo restava lì. Pesante. Stanco. Immobile.
E più restava, più il vuoto si faceva crepa. Allora Maya cercava conforto dove aveva sempre saputo trovarlo: nel riempire, nel masticare, nel soffocare il sentire.
Il tempo passò. Maya divenne la direttrice d’orchestra dei grilli del prato. Dirigeva melodie struggenti, delicate o gioiose. Era capace di capire i cuori degli altri come se fossero spartiti aperti.
Tutti la ammiravano.
Ma ogni volta che alzava la bacchetta, sentiva dentro il peso delle crepe.
Si sposò. Ebbe due figlie bellissime: due farfalline allegre e leggere. Maya le guardava volare e sorrideva. Le abbracciava, le lasciava sbagliare. Con loro era dolce come nessuno era stato con lei.
Un viaggio dentro si sé
Un giorno, osservandole giocare nel sole, sentì un pensiero affiorare: “Io non diventerò mai una farfalla.” Ma, per la prima volta, non fece male.
Fu un pensiero vero.
Capì che non servivano le ali per essere libera. Capì che quel vuoto non si colmava con il cibo. Si colmava con amore per sé, gentilezza, comprensione, perdono.
E allora, cominciò un altro viaggio. Chiese prima aiuto alla lucciola Ermione, che viveva sul ramo più alto del grande salice piangente. Da lì osservava, ascoltava e aiutava tutti a trovare la giusta direzione, anche nel buio più tenebroso. Maya iniziò il suo viaggio. Non verso l’alto, ma dentro di sé. Il più faticoso, perché sconosciuto e difficile. Pieno di cadute e ferite che riemergevano.
Non fu facile. Doveva imparare a guardarsi senza giudizio, a parlarsi con la stessa tenerezza con cui parlava alle sue figlie.
Ogni giorno, Maya si fermava un po’ di più davanti al suo riflesso sulla rugiada e sussurrava: “Va bene così.” “Ti vedo.” “Ti capisco.” “Ti voglio bene.”
E fu così che, pur senza ali, Maya iniziò a volare tra le imperfezioni che diventavano carezze e le giornate storte che non facevano più paura.
Il vuoto dentro di lei non sparì del tutto. Ogni tanto tornava, come un’eco lontana. Ma adesso Maya sapeva ascoltarlo, accoglierlo, abbracciarlo. Non era più un nemico da combattere, ma una parte di sé che chiedeva solo un po’ di luce, un po’ di cura.
Ascoltarsi per riconoscersi
Un giorno d’autunno, quando le foglie cominciavano a cadere come pensieri silenziosi, Maya sentì tornare quella strana malinconia.
Era una giornata qualunque, ma il cielo era velato e l’aria portava con sé un ricordo sottile, quasi dimenticato. Senza capire bene perché, le salì in gola un nodo, e dentro di sé sentì riaprirsi quel vecchio, familiare vuoto. Non era più una voragine, ma era lì, come una piccola crepa che si faceva sentire.
Questa volta, però, Maya non scappò. Non cercò una foglia, né un frutto. Decise di restare.
Si sedette su un sasso liscio, richiuse gli occhi e cominciò a respirare, proprio come le aveva insegnato Ermione.
Inspirava piano. Espirava lentamente. Ascoltava.
All’inizio sentì solo il fruscio del vento tra i rami secchi. Poi il battito del proprio cuore, e poi… qualcos’altro.
Un suono lieve, che sembrava venire da dentro.
Una melodia nascosta, fatta di dolore e bellezza mescolati insieme.
Struggente. Vera. Intima. Le lacrime scesero silenziose.
Non di tristezza, ma di riconoscimento. Quel suono era suo. Era la sua storia, il suo cammino, le sue crepe, le sue rinascite.
Allora corse nel prato, chiamò i suoi amati grilli, e con le note che aveva sentito nel cuore, compose una musica nuova, diversa da tutte le altre.
La intitolò “Respiro”.
E quando i grilli iniziarono a suonarla, tutti nel giardino si fermarono. Anche le farfalle, anche le formiche, anche i fiori.
Era una melodia che faceva vibrare l’anima.
Una musica che non diceva: “Guardami come sono brava”. Ma sussurrava: “Anch’io ho sofferto. Anch’io mi sono persa. E ora, semplicemente, sono qui.”
E così Maya, che non era mai diventata farfalla, divenne una melodia che faceva volare gli altri.
L’articolo è stato scritto da Sonia, che ha raccontato la sua favola