Tra le storie di vita con i disturbi alimentari, a volte, capita che qualcuna abbia una forma diversa dal solito. Non un diario, non una lettera. A volte poesie, ma stavolta un racconto. Questo è il racconto di Viola e della sue esperienza con i disturbi alimentari.
L’infanzia di Viola
Viola è una giovane ragazza che, fin da bambina, ha sempre sognato di vivere in un posto come quello dei cowboy. Quei posti che vedeva sempre nei film che guardava con suo nonno. Voleva vestirsi con quelle camicie a quadri che le ricordavano una casa di legno, leggere davanti al fuoco di un grande camino, vivere di piccolezze, di respiri profondi davanti a un lago, di notti accompagnate alla chitarra che non aveva ancora imparato a suonare.
Si svegliava, metteva in moto il suo giradischi e si preparava il caffè mentre accarezzava il suo gatto. Guardava fuori dalla finestra: aveva una giornata davanti, anzi una vita. Aveva soltanto 10 anni.
Le sue giornate erano molto semplici: tra scuola e piccoli svaghi, rimaneva poi chiusa nella sua camera e arrivava la sera.
Mentre compiva queste azioni c’era sempre qualcosa che si intrecciava nel suo cervello: era ancora troppo piccola per capire di cosa si trattasse e, non avendo armi per difendersi, si lasciava torturare da un male a cui non sapeva dare un nome.
Era ancora una bambina, ma aveva qualcosa di potente e distruttivo che pochi capivano e intorno a lei nessuno se ne accorgeva.
Un cambiamento pesante
Pochi giorni dopo il suo undicesimo compleanno scoprì di avere un piccolo male. “Per farlo andare via devi eliminare un po’ di quella morbidezza che hai sul ventre”: così le disse la mamma dopo quella visita.
Viola era una ragazza morbida (a lei piaceva definirsi così): quella morbidezza era stata per 11 anni il suo marchio di fabbrica e ora avrebbe dovuto eliminarla.
Molte cose cambiarono dopo quella visita, tutto diventò più difficile, anche stare in pace dentro casa sua. Quella morbidezza ora veniva vista male, come qualcosa che faceva spaventare la sua mamma, che era ansiosa e preoccupata, tanto da fare di tutto per eliminare quel marchio di fabbrica. Ma Viola non sentiva nulla che la spingesse ad agire e finché non si sarebbe sentita pronta lei non avrebbe eliminato proprio un bel niente. Questo la mamma non era stata molto brava a capirlo, così la bambina si ritrovò sommersa dalle parole e dalla loro pesantezza, si ritrovò schiacciata dai più grandi e per riuscire ad emergere crebbe molto velocemente. La sua mente iniziò a non rispecchiare più la sua età e non lo fece mai più.
Viola crebbe velocemente e la sua vita le scivolò dalle mani: se le aveste chiesto che cosa si ricordasse dei suoi anni lei non avrebbe saputo rispondervi.
L’insorgere dei disturbi alimentari: oltre il cibo, dentro la psiche
Dagli undici ai quindici anni la sua vita proseguì lenta.
Così crescendo quella morbidezza dal ventre la tolse, non a 11 anni, ma a 15. Con la perdita di quella morbidezza si era aggiunto un altro male. Non era così piccolo come il primo e durò molto a lungo. Anzi, si dice che ancora lei lo porti con sé e lo tenga stretto stretto per non farlo fuggire. Forse perché è l’unico ricordo che possiede: è diventato questo il suo marchio di fabbrica e non ha più intenzione di perderlo e crearne un altro. L’aveva inseguito a lungo perdendo persino la sua strada: se lo avesse lasciato andare non sarebbe rimasto più nulla di lei, sarebbe nuovamente persa.
Questo male non si vedeva, stava nella sua testa, solo lei sentiva la sua voce, per il resto del mondo era silenzio totale. Era il suo disturbo alimentare.
Con la mamma aveva un rapporto agrodolce. Viola soffriva la loro incompatibilità, il giudizio e gli errori di comunicazione tra di loro. Avrebbe voluto svelarsi a lei, ma non ci era mai riuscita. Litigavano ogni giorno, instancabilmente.
Viola, dopo la morte della mamma, era arrivata a pesare troppo poco per la sua conformazione, ma andava avanti con la sua “vita” e continuava a ripetere gli stessi errori.
Iniziare un percorso di recovery dai disturbi alimentari
Era sfinita da questo male ma continuava a giocare a quel gioco: non stava continuando a vivere, ma stava continuando a morire.
Nella sua testa abitavano due voci, non avevano mai smesso di scontrarsi. Lì dentro sembrava una catastrofe e lei non sapeva mai da che parte schierarsi. Il vuoto chiamava costantemente e lei continuava a rispondere.
Si era imprigionata da sola e solo lei poteva trovare la chiave della gabbia, che era però confortevole, la sua nuova casa, piena di una luce illusoria che la legava sempre più ferocemente a quelle sbarre.
Un giorno decise di staccare la spina, non riusciva più a lottare.Voleva urlare ciò che
la assaliva ma aveva paura che qualcuno avrebbe potuto capirla piuttosto che non
capirla affatto.
Si fece aiutare: si ritrovò di fronte a una dottoressa, inizialmente piena di dubbi, ma poi si lasciò andare. Questa era una tipa strana, non sembrava nemmeno una dottoressa.
Viola entrò silenziosa nello studio, i suoi passi non si facevano sentire. C’era una sola poltrona, la dottoressa camminava per tutta la stanza senza fermarsi.
Non la salutò nemmeno e subito chiese: “Tu saresti capace di scegliere una cosa, una cosa sola e di essere fedele a quella, a farla diventare la ragione della tua vita? Una cosa che diventi tutto proprio perché è la tua fedeltà che la fa diventare infinita? Saresti capace?”
Per un periodo lei l’aveva scelta una cosa, o forse era stata lei ad impossessarsi di Viola. Era diventata tutto perché la sua fedeltà verso di lei era qualcosa di sovrumano, e continuava a rimanere con lei. Era qualcosa che sanguinava da tempo ma nessuno le
aveva dato un cerotto per fermarla.
“La difendevo con tutta la rabbia che mi aveva messo in corpo, la difendevo più di me stessa. Non avevo alcuna difesa di fronte a lei e non parlo della mamma”
Viola raccontava con una foga che non aveva mai avuto:
“Era diventata la ragione della mia vita: aprivo gli occhi, tutto dipendeva dal numero…”
La dottoressa annotava velocemente qualcosa su quel taccuino e annuiva; “Hai mai cercato l’interruttore della tua lampadina? Hai mai chiesto aiuto?”
“Ero più buia delle mie stesse tenebre ma continuavo ad andare avanti, con una forza che non sapevo di possedere”
“Se mai ci provi mai ci riesci”
Viola guardò la dottoressa , apprese quelle parole e capì che non voleva fermarsi, per una volta voleva dire tutto, tutto ciò che riusciva.
I sintomi e i comportamenti dei disturbi alimentari
Viola avrebbe sempre voluto saltare il momento del pasto come sui tappeti elastici. Avrebbe voluto addormentarsi e saltare quell’agonia ogni giorno. Ma andava a finire sempre davanti a quel pezzo di ceramica bianca che la inchiodava senza pietà. Era il suo modo per sentirsi libera.
E i risultati c’erano, erano visibili: “Come ti sei fatta bella” e una crepa si apriva nel suo cuore. “Stai benissimo”, un’altra crepa si ramificava. “Non dimagrire più però”: stavolta un buco si era formato, uno di quelli che non si chiude. Si svuotava lo stomaco ma si riempiva la testa.
Questo male divenne abitudine, una cosa normale: non c’era nulla da cambiare. Viola si autoconvinse che stava bene e negava tutto.
Dopo l’inizio della terapia, in quel Posto (come Viola chiamava il suo male) aveva smesso di andare per un paio di mesi, anche se il suo pensiero rimaneva lì, costante.
Lei odiava quel Posto ma era l’unico in cui aveva il controllo, l’unico Posto che la appagava, in cui qualcosa le riusciva.
Quel Posto era e continua ad essere pieno di mostri e continua a chiamarla giorno dopo giorno e notte dopo notte.
“Riesco ad avere il coraggio di non rispondere ma, ogni tanto, basta poco e mi convince a ritornare lì.”
“Viola, ti sei mai domandata quanto ti ha fatto perdere?”
Viola non rispose, cadde in quel vuoto, forse non voleva dargliela vinta. Continuava a difendere con tutte le sue forze il suo male, ma in cuor suo la verità la sapeva.
“Mi ha convinta di voler essere leggera come una farfalla senza mettere in conto che le farfalle vivono un giorno solo”.
La seduta continuò e Viola capì che finchè avrebbe pensato soltanto a ciò che aveva
perso, se continuava ad avere mete senza nessuna quiete, non avrebbe mai raggiunto
la pace. Così prese le sue cose e se ne andò via, ringraziò prima di uscire e tornò a
casa.
La consapevolezza della guarigione dai disturbi alimentari
Soltanto dopo aver percorso quelle scale, quelle per arrivare al suo buio interiore, Viola si accorse che avrebbe dovuto uccidere una parte di sé. Anche se era il suo marchio di fabbrica, avrebbe dovuto farlo, per riprendere in mano quei pezzi di vita che aveva perso.
Solo dopo quella discesa Viola capì la purezza della fragilità che la avvolgeva, capì di poter essere indistruttibile ma anche fragile. Conobbe la potenza del perdono che aveva riservato nei confronti di sua madre, imparò che tornare indietro le era servito solo per prendere la rincorsa e non per rimanere ancora nel buio.
Capì che quella vicinanza alla morte che non la faceva spaventare la fece in realtà rinascere: non voleva più accontentarsi.
Viola si illumina ancora poco, la chiave per chiudere la porta di quel Posto non le serve più. Ogni tanto si affaccia a rivedersi per riabbracciarsi, per capire che non dovrà mai più ritornare in quel Posto, ma sa che quando finisce il muro, mattone per mattone, inizierà la casa.
Inizierà.
L’articolo è stato scritto da Chiara, che ha raccontato la sua storia