Animenta racconta i disturbi alimentari – La storia di Cecilia

Era il 4 gennaio 2021, un giorno come tanti in un periodo intriso di caos e incertezze. L’Italia si trovava in zona rossa per via delle numerose restrizioni imposte dal governo durante il lockdown natalizio.

Pioveva, questo me lo ricordo bene.

La Spezia, la mia città, era avvolta da un velo di malinconia e solitudine mitigato dalle luminarie che rischiaravano le vie del centro praticamente deserte.

Per me, però, quello non è stato un giorno qualunque.

Il 4 gennaio 2021 è stato il giorno in cui ho deciso di smettere di mangiare.

Chiaramente non è qualcosa che accade dall’oggi al domani, anzi. Io mi trovavo in terapia da settembre, e quella subdola vocina all’interno della mia testa aveva cominciato a piantare le sue radici già nel lontano 2015. Ma per me quella giornata assume un significato simbolico, un po’ come se fosse un punto di non ritorno.

I mesi a seguire sono stati un susseguirsi di momenti di follia, disperazione e profonda angoscia, seguiti da fugaci sprazzi di lucidità nei quali la “vera me” cercava di sovrastare i pensieri deliranti che provenivano dalla mia parte oscura.

Ma quando me ne sono resa conto, purtroppo, non mi è stato più possibile tornare indietro.

Il confine tra chi ero stata e chi ero in quel momento era netto, marcato. Dai miei occhi erano scomparse la curiosità, la gioia di vivere, la passione. Tutte quelle caratteristiche che da sempre mi avevano contraddistinto come persona erano state soppiantate da comportamenti altamente disfunzionali, pensieri ossessivi e profondi stati di depressione nei quali vedevo nel mio letto l’unico “posto sicuro” in cui potessi rifugiarmi per sfuggire alle cose orribili che accadevano nel quotidiano. Non avevo ancora capito che isolarsi dal mondo non mi avrebbe portato alcun giovamento, quando era la mia mente lo spietato aguzzino che mi teneva prigioniera.

Le mie giornate erano scandite da rituali e conteggi. Carica di disincanto nei confronti della vita, avevo finalmente trovato un obiettivo che mi spingesse ad andare avanti.

È un paradosso, ne sono pienamente consapevole. E a posteriori mi rendo conto che, quando mi trovavo nel pieno della malattia, non possedevo le facoltà mentali per capire che mi stavo dirigendo verso il fine ultimo di tutto. Eppure era realmente così. Io volevo sparire, volevo diventare evanescente, silenziare il mio dolore.

Per tanto tempo ho cercato di non chiamarla per nome, di non attribuirle importanza e di etichettarla solo come “una fissa passeggera che prima o poi sarebbe passata”. Ma a passare erano solo le giornate: lente e inesorabili, scandite dai suoi ordini che si facevano sempre più forti, sempre più categorici.

Senza falsa modestia voglio dire che io sono sempre stata una ragazza piuttosto sveglia. Sapevo perfettamente quale fosse la mia diagnosi prima ancora che mi venisse comunicata: anoressia nervosa.

Nonostante questo, non avevo mai osato a pronunciare quel nome ad alta voce. Mi metteva i brividi.

Sin da bambina avevo il vizio di associare ai nomi delle immagini in base alle sensazioni che mi evocavano. Lei la associo al ghiaccio e al freddo. Ad una ragazza eterea, dalla pelle di porcellana e i capelli di un biondo talmente chiaro da sembrare quasi bianco. Un po’ come Elsa di “Frozen”, solo che lei non si addolcisce mai.

Quando ne parlavo con i miei amici dicevo semplicemente di “avere qualche problemino con il cibo”, e ogni volta che qualcuno provava ad attribuirmi l’aggettivo “anoressica” sussultavo. Poi ci rimuginavo sopra per ore. Dentro di me sapevo di soffrire di anoressia, e sotto sotto un po’ lo volevo anche, ma questo nome mi ha sempre fatto paura.

Poi, secondariamente, arrivava la vergogna.

Perché sì, la mia parte sana si è sempre vergognata di come io, una ragazza da sempre così forte e grintosa, mi sia potuta spezzare sotto il peso della vanità. Di come sia potuta cadere preda di un problema da molti erroneamente definito “superficiale”.

Ah, quante volte mi sono sentita dire: “Non mangi perché vuoi fare la modella?!” E dentro di me qualcosa si incrinava, ancora una volta non venivo compresa. Come potevano non capire che il mio disagio fosse ben più profondo?

Come potevano non capire che dietro il rifiuto del cibo, le ossessioni, le abbuffate, l’esercizio fisico compulsivo e l’autodistruzione c’era il semplice desiderio di essere più magra? Io volevo scomparire.

Tramite il mio disturbo potevo silenziare i miei timori e le mie ansie più profonde: per il futuro, la maturità, l’Alzheimer del nonno, le violenze di mio padre, gli abusi fatti sul mio corpo. Tutto quanto.

Volevo che il mio corpo rispecchiasse l’interno della mia anima: ruvida e spigolosa.

Ma gli altri non lo capivano e io provavo solo tanta vergogna.

Avevo soltanto diciotto anni in quel momento.

Di cose dopo ne sono successe, eccome se ne sono successe! Ho fatto la maturità e ho viaggiato tanto. Ma ogni viaggio era semplicemente un modo per sfuggire da me stessa. Ha funzionato per poco più di tre mesi, dopodiché mi sono ritrovata faccia a faccia con la realtà: puoi mettere tutta la distanza che vuoi tra te e l’ambiente in cui ti sei ammalata, ma se prima non risolvi il problema alla radice non servirà a nulla.

Il mio corpo durante quell’estate è tornato sano, ma la mia mente non ne voleva proprio sapere di seguirlo. Per tutti stavo bene, però. Il mio dolore veniva riconosciuto solo quando ero a un passo dalla morte.

Così sono stata apparentemente al gioco. Mi sono trasferita a Milano e ho iniziato l’università, poi l’ho lasciata e ho conosciuto la bulimia senza che nessuno lo sapesse. Mi sono trovata un lavoro, ma dopo otto lunghi mesi decido che è ora di lasciare il mio bilocale milanese. Torno a casa per curarmi, questa volta per davvero.

La bulimia non è rimasta per molto ospite nella mia testa, giusto tre mesi.

L’anoressia, invece, è tornata più prepotente che mai. E fa molta più fatica ad andarsene.

Ma ormai la mia vita sta diventando troppo bella perché lei possa rovinarla. Non c’è più posto per entrambe.

L’articolo è stato scritto da Cecilia, che ha raccontato la sua storia

Contenuto a cura di Animenta

PASTA DI SEMOLA DI GRANO DURO LUCANO

Rasckatielli

Pasta Secca 500g

Ingredienti: Semola di Grano Duro Lucano del Parco Nazionale del Pollino, Acqua.

Tracce di Glutine.

Valori Nutrizionali

(valori medi per 100g di prodotto)

Valore energetico

306,5 kcal
1302 kj

Proteine

13,00 g

Carboidrati

67,2 g

Grassi

0,5 g

Prodotto e Confezionato da G.F.sas di Focaraccio Giuseppe
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