Sotto la superficie, oltre lo schermo – Valentina si racconta

superficie schermo

Vi rivelo cosa c’è da questa parte. Vi racconto quel che non vi mostro.

Domenica 27 settembre è stata una di quelle fredde, deliziose giornate che profumano di casa, di famiglia, di cibo e di calore. Una di quelle giornate che profumano d’autunno, di pioggia, di comfort e di pace. Una di quelle giornate in cui ogni odore che arriva al naso rievoca sensazioni passate, dolci e lontani ricordi d’infanzia che fanno sorridere le labbra e riscaldano il cuore. Gli inglesi direbbero che è stata una giornata “cosy”. Ho scoperto questa parola recentemente, vuol dire “accogliente, confortevole, comodo”, si riferisce generalmente ad una stanza piccola, calda, intima, piacevole, ma anche a qualcosa di morbido e avvolgente, come un divano, un maglione o una coperta.

C’è poco da fare, l’autunno è una stagione dalle atmosfere magiche ed io, nonostante il maltempo e l’arrivo del freddo, sono di buonumore. 

Proprio quella domenica, dunque, dopo aver postato la foto di una pizza squisita, forte di tutte queste emozioni, mi sono detta con tranquilla onestà che era ormai giunto il momento di uscire allo scoperto. Perciò, eccomi qui.

Mi ha fatto riflettere un post di Carlotta Gagna (“traininpink” sui social) riguardante il cibo e la disinformazione che prolifera su Internet. Non sono un’influencer, ma, data la mole di contenuti che ho pubblicato quasi ogni giorno sul mio profilo, ho come avvertito una certa responsabilità che mi ha spronata ad agire. Mettersi a nudo su Internet è sempre un’arma a doppio taglio, ci espone al giudizio altrui, ma penso che lo scopo dei social debba essere soprattutto questo, informazione e solidarietà, perciò ho deciso di scrivere e condividere la mia esperienza, senza esibizionismo, con più chiarezza e semplicità possibili. Ci ho messo un po’ a completare questo articolo, è stato difficile rievocare certi ricordi, ma mi sono rimboccata le maniche, mi sono fatta coraggio, e sono fiera di me per esserci riuscita, poiché è qualcosa che sentivo di dover fare già da tempo, che sentivo essere importante. Quindi…

“Una storia che comincia dalla fine”.

Partiamo facendo un passo indietro, una premessa necessaria.

Il 24 aprile 2018 il mio mondo è crollato con un messaggio su WhatsApp: il mio ragazzo storico mi lasciava dopo una relazione durata complessivamente cinque anni. Entrambi avevamo le nostre responsabilità per la fine della nostra relazione, ma, come se non bastasse, anche gli amici che avevamo in comune mi voltarono le spalle e mi allontanarono parlando di comportamenti scorretti nei loro confronti, alimentando un senso di colpa e di inferiorità che non pensavo di poter provare. “Ho sbagliato, ma qua sono io la vittima, dopotutto!”, mi dicevo. Fu un insieme di batoste a farmi crollare. Il dolore che provai fu così forte da ripercuotersi anche sul mio corpo. Gli attacchi di panico mi colpivano appena sveglia, nel momento di maggior vulnerabilità mentale, quando le guardia è bassa, e arrivavano ancor prima di ricordarmi che lui non c’era più. Poi il respiro mi si bloccava in gola, era come se un macigno mi cadesse sul petto, per riprendermi ero costretta a sedermi e a quel punto scoppiavo in un pianto disperato e inconsolabile. Mia mamma dormiva con me, in quelle notti, e ricordo che al mattino mi accarezzava la schiena per farmi calmare. Stavo vivendo un vero e proprio incubo, con la differenza che dalla realtà non ci si sveglia. Si sopporta e basta.

Mi sentivo impotente, sconfitta, persa, sradicata, impaurita. A causa del malessere emotivo, avevo difficoltà a mangiare, l’ansia mi aveva chiuso lo stomaco, avevo la nausea. E ricordo che venne da sé: il giorno immediatamente successivo alla rottura con il mio ex salii sulla bilancia e non vi scesi più. Non so cosa mi spinse a farlo. Credo sia stato perché giorno dopo giorno mangiavo scarsamente e immaginavo (quasi fosse un sogno ad occhi aperti) il mio peso che diminuiva, dunque cercavo conferma nella bilancia, che ritrovavo ogni volta, e questo mi piaceva, mi gratificava, mi consolava. Divenne un’ossessione.

Per non affondare, mi aggrappai a quella gioia, a quella soddisfazione, come un salvagente in uno scuro, rabbioso mare in tempesta. Una vera e propria dipendenza che non avrebbe avuto più fine.

Dopo quattro mesi da quel giorno, un pomeriggio d’agosto in cui ero annoiata sul mio letto dopo pranzo, pensai di scaricare una di quelle app di incontri, così, per gioco, per divertirmi un po’ e per parlare con qualcuno. Invece, conobbi colui che diventò presto il mio ragazzo. È brutto da dire, ma la prima cosa che mi attrasse di lui fu la scritta “personal trainer” sul suo profilo. Il mio subconscio si accese come un albero di Natale: avevo trovato qualcuno che mi avrebbe dato una mano nel mio percorso. E così fu. Grazie a lui, mi avvicinai di nuovo allo sport, ora mia grande passione e zona di confort, ma che, in periodi più o meno lunghi, ha rappresentato l’altra faccia della stessa medaglia, è stato spesso – e alcune volte lo è ancora – assieme al cibo un ulteriore mezzo per farmi del male, per distruggere e massacrare quel grasso che odiavo così tanto avere addosso. Ero ossessionata dalla differenza fisica tra me e lui, avevo il terrore di ingrassare e che lui mi avrebbe lasciata per questo, perciò mi impegnavo affannosamente nell’attività fisica, mangiavo poco o niente e volevo sbrigarmi a dimagrire. Ero mentalmente stremata per la continua tensione che tutto questo mi arrecava.

Per quattro mesi andai in amenorrea. Solo a gennaio, dopo le feste di Natale in cui mangiai molto, le mestruazioni tornarono ed io e il cibo firmammo una sorta di tregua.

“Non è mai solo un fattore estetico”

Non tutti sanno che fino ai miei tredici anni ho subito atti di bullismo più o meno intensamente perché ero sovrappeso. Alle elementari ricordo che ogni pomeriggio venivo maltrattata verbalmente e fisicamente da un mio compagno, a volte anche da altri; mi alzavano le mani. Non ho mai indagato sul reale motivo, ho sempre, solo condannato quel comportamento. Dalle scuole medie, poi, il mio corpo fu oggetto di scherno e cattiverie di vario genere, complice anche lo sviluppo puberale. Così, oltre alla mia forma esteriore, anche la mia natura femminile era motivo di vessazioni. Quando provavo a chiedere aiuto, mi dicevano che era colpa mia perché non facevo che piangere anziché reagire, perché mi mostravo fragile anziché forte e risoluta.

Faceva male.

Alla fine delle medie, prima di entrare alle superiori, decisi di cambiare atteggiamento, di reagire, come mi era sempre stato detto di fare. La situazione seguì la mia scia, in automatico e immediatamente, cambiando anch’essa, senza più casi di bullismo nei miei confronti. Nel corso di quei tredici anni, sono stata insultata con parole pesanti quali “cicciona” (spesso seguito da “di merda”), “balena”, “maiale”, “Gabibbo”, “pachiderma”, “obesa”, persino “puttana”, una volta, da un ragazzino che mi sono ritrovata in mezzo ai piedi fino alle superiori, dove un paio di volte è tornato a farmi violenza verbale, senza motivo, solo perché ci trovavamo nella stessa aula. Dopo quegli episodi, mi sono sentita uno schifo, ero arrabbiata con me stessa perché mi ero ripromessa di non permettere più che accadesse, invece sul momento mi ero ritrovata paralizzata, annullata, spaventata. Per fortuna, c’è stato finalmente qualcuno che ha dato peso alla faccenda, su cui ho potuto contare e che ha agito per difendermi. Meglio tardi che mai.

“È questione di peso”

La trasformazione che ho avuto negli ultimi due anni e mezzo è il risultato di tutto questo.

Ho ricevuto complimenti, parole di incoraggiamento, di stima, di ammirazione da molte persone, dal vivo e attraverso i social, soprattutto da chi mi conosce fin da quando ero bambina e non mi vedeva da qualche tempo. Tuttavia, mi è stato persino detto che ora sono troppo magra, che dovrei rimettere su un paio di chili perché mi si contano le ossa, che neanche troppo magri si è belli, anche da coloro che mi sono più vicini. Prima fra tutti, mia madre. Non credo si renda conto di quanto sia negativamente impattante su di me ciò che dice. E’ fissata con il mio peso più di quanto lo sia io. Ormai, ogni volta che la saluto al telefono o di persona, l’ultima cosa che mi dice non è più “stai attenta in giro”, ma “mangia, mi raccomando!”. Non la biasimo, d’altronde, è preoccupata per la mia salute. Sono in amenorrea da marzo di quest’anno, nonostante le mie analisi siano perfette, ma vien da sé che l’assenza del ciclo mestruale non è un buon segno, è sintomo che qualcosa non va.

La cosa grave, forse, è che io malsanamente traggo anche piacere da certi commenti. Mi fanno sentire bene, dall’altro lato, perché danno risalto all’evidenza dei fatti compiuti, danno riconoscimento e valore all’avvenuto raggiungimento del mio obiettivo. È un circolo vizioso che si autoalimenta – termine appropriato, direi. Ti sforzi di seguire una certa alimentazione, ti sacrifichi, ti impegni nello sport, ti pesi, il numero sulla bilancia scende, è come un complimento, una carezza, un premio, ti senti gratificato, ricompensato, e ne vuoi ancora di quella sensazione, sempre di più, non è mai abbastanza. E’ un meccanismo oscuro e perverso.

È tutta una questione di peso, dunque? Non solo. Il peso è la gravità che agisce su di noi, rappresenta, per quanto irrisorio, l’impatto che abbiamo nel mondo. Pesare meno vuol dire fare meno rumore, passare inosservati, essere conformi all’immagine di massa, non entrare nel mirino del giudizio altrui, vivere in pace.

“Le apparenze ingannano.”

Nonostante i piatti, le ricette, l’entusiasmo, la bontà e l’abbondanza che mi sono impegnata a portare sui social, credo “paura” sia il termine che meglio descrive ormai il mio rapporto con il cibo: esso occupa i miei pensieri per la maggior parte del tempo, passo le giornate a preoccuparmi delle calorie di ogni alimento che introduco nel mio corpo, a controllare e frenare l’impulso di mangiare tutto quello che vorrei. Sono terrorizzata dall’idea di ingrassare per via di tutti i sacrifici che ho fatto, del tempo speso, delle lacrime versate, della fatica, dell’impegno e della costanza investiti, terrorizzata dall’eventualità di tornare ad essere quella di prima, la me che non aveva autostima, era debole, accidiosa, procrastinatrice, lagnosa, statica, oltre che grassa. E’ come se fino a quel momento il grasso avesse trattenuto, inglobato tutti i miei difetti, tutto il brutto che era in me, ed io perdendolo me ne fossi finalmente liberata.

Sono in questa condizione ormai da due anni e mezzo, dunque, dal giorno di quella rottura dopo il quale qualcosa di brutto si è innescato in me. È vero, ho avuto tanti vantaggi dal mio cambiamento, mi sono riscoperta più sicura e fiera di me e del mio corpo, sono maturata, ho imparato e sto imparando tanto su sport e alimentazione, ho conosciuto persone nuove, mi sono liberata di quelle curve da cui non mi sentivo rappresentata, ma è solo una faccia della medaglia che ho vinto. L’altra, la “dark side of the Moon“, è lì, acquattata nell’ombra, un mostriciattolo che si è evoluto nel tempo, ha assunto forme ed intensità diverse, a volte gonfia il pelo e torna a passo di carica, altre volte è solo un sussurro in sottofondo.

Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, dopotutto. Cerco sempre di applicare razionalità nel mio comportamento alimentare, di non farmi sopraffare; ci riesco, ma l’inconscio è infido, capita che prenda il sopravvento e che il raziocinio fatichi a restare al passo. E’ una lotta quotidiana, continua, per chi soffre di disturbi alimentari non esiste un equilibrio. Bensì ci sono rabbia e invidia verso le persone “normali”, quelle che mangiano spensierate, a cui non importa assolutamente nulla di preferire un’insalata ad un gelato, e ci sembra quasi che si facciano beffa di noi, sebbene ci consoli la consapevolezza che non è giusto neanche così, perché anche nel mangiare serve misura. Sono due situazioni all’estremo, ciascuna carente di qualcosa.

Ultimamente, poi, mi capita di pensare a Natale e Capodanno, ai tradizionali pasti abbondanti che dovrebbero essere simbolo di unione, famiglia, gioia, condivisione, leggerezza. Per me, invece, tutto si racchiude in una bolla di ansia e stress; penso già a come potrò affrontare la situazione per fare meno danni possibili, a quanto mangerò, a cosa dovrò preferire, a quante calorie ingerirò. E questo, nonostante io sappia che mi serve, sia a livello fisico, sia mentale, si verifica ogni volta che mi concedo il pasto libero. Vivo il momento con ansia e trepidazione al tempo stesso, perché il cibo mi dà gioia, mi soddisfa e mi appaga, ma quando sono lì, a mangiare qualcosa che sguscia dal mio controllo, mi sento persa, minacciata, in pericolo, come affacciarsi su un burrone pur soffrendo di vertigini, guardare giù e sentirsi male, eppure i piedi sono a terra, “sono salva!”; per ora! Sai che basta solo una piccola spinta e cadi giù. 

Provo frustrazione e rabbia perché almeno per una volta vorrei concedermi in libertà un buon pasto, senza quella vocina che mi apostrofa maligna, un vero e proprio tiranno che mi dice che non posso permettermelo, che non devo neanche osare pensarci, che bisbiglia e sibila sentenze: “hai il dovere verso te stessa di non riacquistare neanche un etto di grasso, hai fatto troppi sacrifici per perderlo, devi tenere duro, sei una guerriera, sei forte, faglielo vedere, fa’ vedere a tutti che volere è potere, riscatta la bambina che non sapeva reagire!”.

Di conseguenza, tutto questo mi intralcia, mi limita negli eventi sociali e familiari, non mi fa vivere serenamente; di tanto in tanto capita un’occasione speciale, un compleanno, una ricorrenza, e se quella singola uscita non rientra nel mio giorno libero, rifiuto l’invito.

“Non siamo soli”

Dopo una travagliata esperienza di dieta iniziata a febbraio e conclusa ad agosto, ho deciso di affidarmi ad una nuova nutrizionista (su Instagram @dott.ssa_chiara_dellaversano), che ho sentito da subito più affine alla mia persona e ai miei bisogni. La conclusione della prima visita, confermata anche dall’analisi della mia composizione corporea, è stata che la mia percentuale di grasso viscerale è insufficiente al ritorno del ciclo mestruale, ovvero quel grasso essenziale che ricopre e protegge gli organi interni. Assurdo, vero? Fa quasi ridere, in un certo senso. La mia reazione è stata ambivalente, derivata da quel dualismo di cui ho scritto sopra. Una parte di me ha pensato che finalmente avrei potuto rilassarmi, mangiare un po’ di più, non sentire fame e pensare al cibo per i tre quarti del tempo; l’altra parte, quella cattiva, subdola, ha tirato bruscamente il cappio e ha detto no, che non avrei potuto farlo, altrimenti avrei perso il controllo, avrei rischiato di oltrepassare senza accorgermene il limite che separa la confort-zone del cibo “sicuro” dalla danger-zone del cibo da evitare.

Non avrei mai immaginato, nella vita, di ritrovarmi con il problema opposto. Mai. E alla luce di tutto quello che avete letto finora, potete immaginare la fatica che sto facendo per accettare e affrontare la cosa. Sono contenta, però, che alle mie spalle ci sia lei a supportarmi, ad ascoltarmi e a seguirmi. Soprattutto in questi casi, la scelta del medico è importantissima. Come in ogni rapporto interpersonale, bisogna trovare la persona giusta, quella più adatta a noi e, se non si trova subito, non dobbiamo sentirci in colpa a voler cambiare per continuare a cercare.

“Tutto è bene quel che finisce bene, ma prima bisogna arrivarci”

Per finire, vorrei con l’occasione scoraggiare l’uso di determinati appellativi nei confronti dei bambini da parte degli adulti che hanno accanto. Seppur senza malizia alcuna, se ripetute e protratte nel tempo, certe parole e frasi restano impresse come etichette da affiggere su sé stessi per il resto della vita, poiché si creerà automaticamente la convinzione che “se tutti lo dicono, dev’essere così!” e sarà dura, al momento della crescita e del cambiamento, ricostruire con realismo ed obiettività l’immagine che avremo di noi stessi. Ciò che si fa durante la psicoterapia contro i DCA è anche questo. Guarire richiede tempo, è un lavoro costante. Sarà difficile, ci saranno scivoloni, e a volte basterà una parola sbagliata per farci sprofondare, ma ci saranno anche riprese e periodi di serenità. Sarà difficile, ma non impossibile. Se ne può uscire. E se ci credo io che ancora non ci sono arrivata, potete farlo anche voi. Voglio credere che una mattina ci sveglieremo e, prima di cominciare una nuova giornata, ci stiracchieremo sorridendo, tireremo un sospiro di sollievo e quel pensiero arriverà come una rondine che si posa sul davanzale: “è finita”.

Scoprite e reiterate tutte quelle attività, siano esse individuali o con le persone che amate, che per voi sono cosy (ricordate questa parolina?) e che possono aiutarvi a stare bene, che vi ricarichino di gioia, vi rassicurino e vi riscaldino dolcemente, con costanza, nei momenti di gelo emotivo.

Piccolo appello finale che viene dal profondo: non diamo mai nulla per scontato, diffondiamo quanto più possibile educazione, tolleranza e rispetto, soprattutto fra i più giovani, e impegniamoci a combattere la cattiva abitudine del ‘giudizio e pregiudizio’, in qualsiasi ambito e contesto sociale, affinché il mondo diventi un posto a misura di tutti.

Contenuto a cura di Valentina Rosati

PASTA DI SEMOLA DI GRANO DURO LUCANO

Rasckatielli

Pasta Secca 500g

Ingredienti: Semola di Grano Duro Lucano del Parco Nazionale del Pollino, Acqua.

Tracce di Glutine.

Valori Nutrizionali

(valori medi per 100g di prodotto)

Valore energetico

306,5 kcal
1302 kj

Proteine

13,00 g

Carboidrati

67,2 g

Grassi

0,5 g

Prodotto e Confezionato da G.F.sas di Focaraccio Giuseppe
Zona Mercato 85038 Senise (PZ)
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