Riguardando vecchie foto, che poi tanto vecchie non sono, rivedo una me fragile, insicura, dipendente dal giudizio degli altri.
Posso ancora percepire quel senso di inferiorità che mi tormentava, così come posso ancora percepire quel senso di vuoto ed apatia che avevo dentro.
Lo sento quel freddo nelle ossa che mi faceva tremare anche in piena estate, quella fatica tremenda nel vivere la vita. La difficoltà nel concentrarmi, il non riuscire ad essere presente con la testa in nessuna occasione.
Risuonano ancora le urla delle litigate con chi mi stava accanto per il mio voler allontanare tutti ed isolarmi dal mondo.
Mi fa ancora paura quella testa che non mi dava pace. Il peso di una mente che mi costringeva a pensare ossessivamente al cibo per evadere da una realtà che non sapevo affrontare, per scappare da me stessa.
E poi quella vocina insidiosa, eccome se la sento ancora. “Nessuno mi vuole”. “Non mi merito nulla”, “Non valgo niente”. “Sono sbagliata”, “Non sono abbastanza bella”, “Non sono abbastanza magra”, “Non sono abbastanza brava”. “Non sono abbastanza”…
Mi rivedo mentre cammino, cammino e ancora cammino col bruciore del senso di colpa per quella pizza, quel pezzo di pane, quel gelato, quel cioccolatino, che non mi potevo permettere.
Se chiudo gli occhi risento quell’imbarazzo e quella vergogna che provavo per i miei stessi pensieri.
Ma sento anche il senso di appagamento di quando mi nutrivo dei commenti della gente che notava i cambiamenti nel mio corpo.
Ora riesco a leggere i segnali di una mente malata in una ragazza che non si sapeva spiegare cosa stesse provando.
Non lo so esattamente dove comincia la mia storia.
Forse alle scuole elementari quando ero la bambina timida che non parlava, o alle superiori quando ero la ragazza secchiona e un po’ sfigata, quella che non veniva mai scelta per formare le squadre nell’ora di educazione fisica, per intenderci; o forse ancora, all’università quando, vittima della competizione, mi sentivo un fallimento e mi confortavo col cibo che tenevo nascosto in camera.
Non so bene come comincia, ma so come finisce la mia storia. Finisce con la luce in fondo al tunnel.
Prima della fine però ricordo la prima volta che ho provato ad urlare che stavo male. Neanche io ci credevo abbastanza in quel primo grido. Io per prima non mi sentivo autorizzata a soffrire di DCA perché non abbastanza sottopeso.
Ora vorrei urlare di nuovo, per ricordare che un DCA non sempre si vede dall’esterno, che è un disturbo della mente, un mostro che la tiene in trappola.
Ascoltare, senza giudicare e senza seguire schemi, chi ci sta intorno è un dovere.
L’articolo è stato scritto da Silvia, che ha raccontato la sua storia