Caro corpo,
non potrei iniziare a scriverti nulla se non tornassi a ascoltare e a relazionarmi con la nostra vulnerabilità ovvero con quella parte intima e profonda che si scatena, brucia e attanaglia ancora talvolta dentro di me e di cui tu ne sei sempre stata piena espressione. Questa parte, che vorrebbe narrare la parte più vera e autentica di me stessa, ha come linguaggio principalmente i sentimenti e le emozioni e ha scelto come strumento comunicativo proprio tu. I tuoi occhi, la tua pelle, il tuo fascino, i tuoi gesti e il tuo movimento parlano molto di più e meglio di me stessa di quello che sono capace io di fare con un discorso. Chi mi conosce, lo sa: gli basta osservarti per capire ciò che sto vivendo.
Anzi ti dirò di più, quella parte lì, irrazionale ed emotiva e per questo tanto fragile, definisce gran parte della mia personalità dentro il quale inevitabilmente ci sei anche tu e questa è una delle scoperte più belle che mi sta accompagnando in questi mesi.
Ho cercato per più di 15 anni di negarla, tamponarla, combatterla e mascherarla con il mio “delirio di onnipotenza”, con quel “io devo, che è diventato poi l’io voglio e allora io posso, controllandoti” perché pensavo mi ostacolasse nella salita verso la cima delle aspettative delle persone che amavo di più. Quell’amore che bramavo ma non era mai abbastanza corrisposto mi ha fatto arrabbiare molte volte, con me stessa, lasciando un vuoto che ho cercato di colmare in moltissimi modi, facendomi arrivare a 30 anni con lo zaino piene di esperienze ma mancante dell’essenziale: lo studio dapprima e poi le mille e più attività mi hanno portato a traguardi importanti e mi hanno resa capace di fare molte cose ma a quale prezzo. Ti ho sacrificato, facendo un patto con il sangue e riducendoti a uno sterile oggetto di consumo per molti anni. È da lì, da quel vuoto incolmabile e sterile, che hanno origine tutte le contraddizioni della mia vita, che finalmente abbiamo iniziato ad affrontare insieme anche se è difficile.
Ora so, che tutte le volte che non ti nutrivo abbastanza, che avrei voluto alzare un po’ più il gomito, che ti facevo camminare o correre per chilometri o ti lasciavo in balia di mani sconosciute senza dignità lo facevo perché volevo vincere su quella sofferenza, su quel vuoto, su quel debito d’amore che sentivo, e sento tutt’ora anche se in modo un po’ diverso. E so che quel vuoto non è che segno della nostra vulnerabilità, e la dipendenza d’amore non è una malattia ma è la parte più bella della nostra umanità e origine dei nostri desideri. Essi vanno accolti, custoditi, non rifiutati e per farlo dobbiamo entrare e restare in dialogo, io e te. Se mangio, corro e bevo un bicchiere di vino ora lo faccio con te, non contro di te e del “tocco” mi prendo cura, perché ora so quanto quel gesto sia prezioso e capace di arrivare nelle profondità più recondita.
Sai, forse, questa lettera non era nemmeno necessaria perché io e te ormai non siamo più divisi, tu sei parte di me, e quando guardo lo specchio mi stupisco ogni volta a vedere quanto straordinaria, unica, dinamica e è la nostra bellezza se lascio esprimere anche la vulnerabilità che abbiamo dentro.
Sara