I pensieri cerebrali schiaccianti di un periodo ovattato nella memoria sfumano, ma la memoria del cuore rimane. I ricordi di quel garbuglio indistricabile non si dimenticano: io stavo immobile, e al contempo traballante, in un angolino ricavato su misura per cercare il buio e poterci sguazzare liberamente. Un buio che auto-alimentava la voragine che piano piano trascinava con sé tutto quello che ero stata.
I ricordi delle proprie cicatrici
Quello squarcio rimane pulsante nelle viscere. Forse perché terrorizza dimenticarlo, forse perché è prezioso ricordarlo.
Il blocco delle emozioni, le orecchie che si tappano, l’annebbiarsi del cervello. La pancia che prima urla ma poi, con il passare delle ore, il corpo si abitua allo stato di sopravvivenza, al vuoto nello stomaco percepito come falsamente pieno.
Perché il cervello ha deciso così e il corpo si adegua; perché il cuore lo ha dettato ad un livello più profondo e il corpo ubbidisce.
É così che anima e corpo prendono due strade paurosamente simili nell’obiettivo, quello della non-vita.
Tentare l’isolamento per evitare il confronto
Non rende forti volare sopra i tormenti fino a annullarli, non farsi sfiorare dalle persone vicine per paura del confronto, della messa in discussione della legittimità delle proprie emozioni.
Sentirsi “capace” solo perché niente ti tange, perché se rimani sola non puoi fare male a nessuno, nemmeno a te stessa, perché non c’è valore effettivo che ti possa tenere ancorata a una vita che non riconosci come tua.
Mattone dopo mattone il cuore fa tabula rasa di tutto l’immenso che può contenere.
E così il vuoto si fa spazio in te, ingenuamente ti ci abitui. È una lacerazione interiore che non si ricuce (anche se, forse, il tempo è un po’ clemente in questo: il lentissimo trascorrere dei giorni aiuta la cicatrice a formarsi).
La sensazione di onnipotenza che sta dietro alla cicatrice
L’annebbiamento dei pensieri non nobilita lo stato di vita: ti corteggia, si insinua subdolamente in te e ti rende impotente e debole.
Si cela dietro una sensazione di onnipotenza, che altro non é che il terrore di capire dove sta l’origine di quello stordimento interiore dalla consistenza così pesante, così confusionaria, da portarti a fare i conti con le tue ombre più importanti.
Si insinua lo spaventoso dubbio per cui é quello il benessere a cui puntare, ché “é così che fanno gli adulti”, “è così che si cresce”, “è così che si è prestanti”: non si cade, non si inciampa.
Riconoscersi vuol dire sentire la pioggia sulle proprie cicatrici
La vita è luce, suoni, tanta pioggia presa fino a infradiciarsi. Peró poi ci si asciuga.
Poi la pioggia ritorna sotto forma di temporale estivo o pioggerella primaverile.
E soprattutto la senti che ritorna, che ti bagna la pelle, i vestiti, e arriva fino alle scarpe e ai calzini, che si potrebbero strizzare.
Forse, riconoscersi vuol dire sentire la pioggia. Sui vestiti, dentro le scarpe e nei calzini, fino alla pelle.
Specialmente dentro, sulle nostre cicatrici.
L’articolo è stato scritto da Greta, volontaria dell’Associazione