Cos’è l’identificazione proiettiva?
Secondo la psicoanalista Melanie Klein, l’identificazione proiettiva consiste nell’insieme dei comportamenti di difesa messi in atto inconsciamente dai bambini. L’individuo affronta i conflitti emotivi o i fattori stressanti attribuendo erroneamente a qualcun altro i propri sentimenti, impulsi o pensieri inaccettabili. Il soggetto non disconosce completamente ciò che viene proiettato, ma interpreta erroneamente tali aspetti come reazioni giustificate nei confronti dell’altro.
A seguito dei suoi studi M. Klein identifica un periodo più o meno lungo della vita, detta fase di schizoparanoide, che si presenta in individui con difficoltà nella distinzione dei confini interpersonali ed intrapsichici.
Ma che relazione ha con i disturbi del comportamento alimentare?
Immagina di sentirti costantemente sotto pressione, come se il mondo intero ti osservasse e giudicasse ogni tua mossa.
Le aspettative degli altri, spesso irrealistiche e impossibili da soddisfare, si insinuano nella mente, alimentando un senso di inadeguatezza che ti divora dall’interno. In questo stato di fragilità, senti come se stessi perdendo pezzi di te stess*, come se la tua identità si stesse sgretolando.
E così, inizi a proiettare all’esterno, sul tuo corpo e sul cibo, tutto ciò che non riesci ad accettare di te.
Nel mio caso, questa proiezione si è manifestata attraverso un bisogno ossessivo di controllo. Ogni caloria, ogni grammo, ogni interazione sociale è diventata un campo di battaglia. La bilancia è diventata il giudice supremo, e i numeri il metro della mia autostima.
Cerco disperatamente di plasmare il mio corpo e la mia vita secondo un ideale di perfezione irraggiungibile, un’immagine distorta che mi è imposta dall’esterno e che ho interiorizzato come unica via per la felicità.
Ma il disturbo alimentare non è solo una questione di controllo.
È anche un grido disperato, un modo distorto di comunicare un dolore profondo che non trova parole. Il rifiuto del cibo, le abbuffate: ogni sintomo è un simbolo di un conflitto interiore, di un’incapacità di trovare un equilibrio tra chi sono veramente e come mi percepisco.
L’identificazione proiettiva si manifesta nella distorsione dell’immagine corporea.
Mi vedo come un mostro, un nemico da combattere, un oggetto da plasmare secondo canoni esterni.
Il mio corpo è diventato il ricettacolo di tutte le mie insicurezze, di tutte le mie paure.
La sfida più grande è riuscire a riconciliare queste due immagini, a trovare un punto di incontro tra la persona che ero e quella che vedo riflessa nello specchio.
In questo processo, il cibo ha assunto un significato simbolico potente. È diventato controllo, punizione, conforto, espressione di rabbia e di vuoto interiore. Ogni boccone è una battaglia, un campo di conflitto in cui proietto tutte le mie angosce e le mie insoddisfazioni. Il mio rapporto con il cibo si è trasformato in una guerra, una guerra contro me stesso.
L’identificazione proiettiva è negativa?
In pratica, l’identificazione proiettiva è come uno specchio: possiamo usarla per riflettere un’immagine positiva di noi stessi, qualcosa che ci spinge a migliorare e a sentirci bene. Per esempio, ammiriamo una persona che ha realizzato i nostri sogni e ci ispiriamo a lei per raggiungere i nostri obiettivi.
Però, a volte questo specchio può distorcere la realtà. Chi soffre di disturbi alimentari, ad esempio, può proiettare un’immagine irrealistica di sé, un ideale di perfezione impossibile da raggiungere. Quando poi si guarda allo specchio e non vede quell’immagine, si sente inadeguato, si vergogna e si giudica duramente.
Quindi, l’identificazione proiettiva non è né buona né cattiva di per sé. Dipende da come la usiamo. Se ci aiuta a crescere e a volerci bene, è positiva. Se ci porta a inseguire fantasie irraggiungibili e a odiarci, diventa un problema.
Il triplo legame tra emozioni, identificazione proiettiva e disturbi alimentari
In questo discorso, le emozioni hanno fondamentale importanza, in quanto strumento indispensabile per conoscere e dare un senso al mondo in cui viviamo.
Le emozioni che vengono proiettate sono spesso quelle che il soggetto trova difficili da gestire o riconoscere in sé stesso.
Queste emozioni creano terreno fertile per la nascita di un disturbo, un disagio ma anche ad una situazione dove abbiamo bisogno di esternare queste emozioni. L’identificazione proiettiva è strumento per farlo, a cui si lega perfettamente il disturbo alimentare.
Esso è specchio del condizionamento di una cultura onnipresente e pervasiva che esalta i valori dell’ esteriorità e dell’appartenenza rispetto all’ interiorità, al mondo dei pensieri e dei sentimenti.
Lo studio dell’identificazione proiettiva
Immagina di avere un puzzle con tanti pezzi, alcuni che ti piacciono e altri meno. L’identificazione proiettiva è un po’ come prendere alcuni di quei pezzi che non ti piacciono e “incollarli” addosso a un’altra persona.
- Melanie Klein, una pioniera in questo campo, vedeva questo processo come un modo primitivo per liberarsi di parti di sé che non si accettano, attribuendole a qualcun altro per controllarlo o farlo sentire male.
- Wilfred Bion ha poi ampliato l’idea, sottolineando come questo meccanismo influenzi la comunicazione. A volte, è un modo per far capire all’altro come ci sentiamo, anche senza parole. Altre volte, però, può diventare un problema serio, soprattutto in chi soffre di disturbi mentali.
- Altri studiosi hanno continuato a esplorare come questo “incollare” pezzi di sé sugli altri avvenga nelle relazioni, in famiglia, tra partner, in gruppi di persone. Hanno anche notato che non è un fenomeno limitato a chi ha problemi psicologici: tutti noi, in certe situazioni, possiamo usare questo meccanismo per difenderci da emozioni troppo intense.
In parole semplici, l’identificazione proiettiva è un modo complesso in cui le persone si relazionano, un meccanismo che può essere utile o dannoso a seconda di come lo usiamo.
Bibliografia
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L’articolo è stato scritto da Giuseppe, volontario dell’Associazione