Cercare di spiegare un disturbo alimentare è una sfida ardua, soprattutto a vent’anni quando stai ancora cercando di capire chi sei e cosa vuoi fare della tua vita.
Apparentemente dal nulla ti cade addosso un’enorme incudine di ferro che ti schiaccia, non ti uccide – almeno non subito – ma ti opprime e rende ogni piccolo tuo passo in avanti una delle dodici fatiche di Ercole. Ti ritrovi, senza rendertene conto, in un buco nero fatto di pensieri ed emozioni contrastanti, spesso assolutamente paradossali e incoerenti fra loro. Nulla di ciò che fai o dici ha senso razionalmente, ma nella tua testa segue un perfetto filo logico. Chi ti osserva da fuori cerca di comprendere, impotente. Tu ti crogioli in questa aura ermetica che ti circonda, ma in realtà l’unica cosa incomprensibile è perché stai cercando ogni metodo per autodistruggerti.
Il mio triangolo infernale
Sono tre i capisaldi di questa malattia, almeno per quanto riguarda me. Se dovessi disegnarla traccerei un triangolo. Desiderio di sparire e senso di identità alla base; bisogno di controllo al vertice. Alla base del triangolo si trova quello che mi piace definire “il grande paradosso”. Vorresti annullarti, sparire, occupare sempre meno spazio, essere il più piccolo possibile. Ti senti niente, mai abbastanza. Non sei e non potrai mai essere all’altezza degli altri. Sei una scatola vuota. Se scuoti questa scatola si sente il nulla cosmico e questo senso di vacuità ti terrorizza. Horror vacui. Cerchi in tutti i modi di colmare quel vuoto, ti sforzi e strepiti, ma sembra un lungo tunnel senza uscita. Lo percorri senza sosta, ma non intravedi mai la luce.
Ed è in questo momento che arriva la malattia: traccia la sua linea sul fondo del triangolo e ti dona un piccolo senso di identità. Si posiziona all’interno della scatola e si espande, ingloba tutte le pareti. Se la osservi ha un aspetto orribile, malato, quasi putrefatto, ma almeno adesso, quando scuoti la scatola, fa rumore. La malattia non è solo parte di te, diventa la tua essenza intrinseca. In assenza di altre peculiarità ne fai tutto il tuo mondo e ti ci aggrappi come se fosse una boa di salvataggio. Sai perfettamente quanto male fa, a te e a chi ti circonda, ma lo preferisci all’anonimato più totale. Nel tuo sentiero verso l’annichilimento ti senti finalmente qualcuno. Un piacere sadico e perverso che ti fa credere di stare bene, anche se basta guardarti negli occhi un secondo per comprendere che di buono, in te, non è rimasto praticamente niente.
Al vertice del triangolo si trova il punto fondamentale: il controllo.
Una vita intera passata ad annullarti, a sentirti inferiore a tutti e mai abbastanza per niente. Una vita intera senza il dominio su te stessa e quello che ti circonda. Brami certezze e desideri con tutte le tue forze un senso di stabilità o un punto fisso che sai di poter gestire. Sei consapevole di non poter incombere sulla vita altrui e decidere per le persone. Così come sei conscia del fatto che esistono parti di te che non puoi modificare nemmeno volendo. Il quoziente intellettivo non si può alzare, il carattere più di tanto non lo mitighi e la chirurgia estetica costa troppo. Cosa resta? Il cibo e il peso. Puoi far salire e scendere quel numero sulla bilancia a tuo piacimento, e questo ti fa sentire potente. Contare le calorie diventa il mezzo con cui trovi stabilità ed il resistere allo stimolo della fame il tuo piccolo obiettivo giornaliero. Sei disposto a rinunciare a tutto per mantenere viva questa euforia, questo senso di potere. Gli amici, lo studio, il lavoro, o anche solo la cura personale passano in secondo piano. Il controllo è ciò che c’è di più importante nella tua vita, anche se per chiamare questo susseguirsi di giorni “vita” ci vuole coraggio. Tuttavia, non è tutto rose e fiori. Sei umano, hai voglie, e quando – quando e non se, perché succede inevitabilmente – lasci andare la presa e cedi, ti concedi un piccolo strappo al tuo regime da pugno di ferro, precipiti in un buco ancora più nero di quello in cui ti trovi. Arrivano le crisi, i sensi di colpa e gli attacchi di panico. Tutto il tuo controllo sembra svanire e crollare come un castello di carte al vento. Vorresti morire, abbandonare tutto. L’idea di aver fallito ti assale e non ti lascia vivere.
Al centro del triangolo c’ero io
Ecco il grande triangolo della malattia. Ma cosa c’è al centro di questo triangolo? Ci sei tu. Tu che ogni giorno ti svegli sperando che sia l’ultima volta in cui dovrai lottare contro te stessa e contro la tua testa. Ci sei tu che ti senti oppressa ma allo stesso tempo al sicuro. Più il tempo passa, più la tua voglia di uscire da quel triangolo scema, perché sprofondi sempre più giù e la risalita ti appare impossibile. Quella letale figura è diventata la tua casa, o peggio, sei tu stessa ad essere diventata il triangolo.
Nonostante tutto, c’è ancora una piccola parte di te che non è stata contagiata dalla malattia: gli occhi. Quella piccola parte di te sana, quel bagliore razionale in un mare di follia, a volte riesce a vedere. Vedere per davvero, Vedere con la V maiuscola, ciò che sta intorno a te. Quante persone ti sono vicino e quanto male stai facendo loro, oltre che a te stessa. Inizialmente ti senti in colpa, soffri. La testa ti dice che sei come un tumore, distruggi e uccidi ogni cosa che prova ad avvicinarsi a te. Trasformi in terra bruciata tutto quello che tocchi. Ti dai dell’egoista, piangi, sei convinta di essere una persona orribile e immeritevole di qualsiasi forma di affetto. Non solo sei un fallimento e una delusione, ma sei anche nociva. Una malattia infettiva. Quando l’angoscia e la tristezza si alleviano, perché ormai hai pianto e urlato tutto, e sei allo stremo delle forze, ragioni. Ragioni e ti arrabbi. Ti arrabbi con te stessa e con la malattia, la odi come non hai mai odiato nessuno.
Dalla rabbia trovi la forza per lottare. Il pensiero del dolore che provocheresti mollando diventa più insopportabile del disprezzo per te stessa e della sofferenza che provi.
È sbagliato non lottare per se stessi, ma combattere per una motivazione, anche se trascende dalla tua persona, è meglio che arrendersi.
Se non per te per gli altri. Se non per te per chi ti vuole bene.