Il cibo come premio
Quando ero piccola ero molto golosa. Mi piaceva mangiare di tutto e provare nuovi cibi. Prediligevo il dolce. Quando andavo al ristorante, ad esempio, alla “sensazione” di sazietà, non continuavo il pasto perché dovevo assolutamente lasciare il “buchino per il dolce”. Al dolce non potevo mai dire no.
Quando prendevo un bel voto ad una verifica o all’interrogazione, mi piaceva mangiare “qualcosa di buono”, un ovetto kinder, un cioccolatino, i togo (oddio quanto tempo è passato, esistono ancora i togo?), come se in questo modo mi premiassi.
Non so se questo meccanismo cibo=premio abbia avuto incidenza nel mio successivo disturbo alimentare ma ho capito che, ad oggi, questo meccanismo ha influenzato il mio modo di vedere il cibo: è un premio, qualcosa che devo meritare.
Il cibo come mezzo di punizione
Se mangiare vuol dire premiarsi, non mangiare vuol dire punirsi.
Quando so di non aver fatto abbastanza nello studio o di aver sbagliato qualcosa, anche semplicemente nella gestione dei soldi, nella gestione di una situazione interpersonale (che poi chi è che stabilisce cosa è giusto e sbagliato?), io “lo sento”. Lo sento nello stomaco e mi si forma un nodo in gola. Ecco, il nodo in gola è l’azione fisica che la mia mente mette in atto per dirmi: “Cattiva José. Hai sbagliato. Avresti dovuto fare così e colà”.
Come conseguenza, il meccanismo automatico è quello di non mangiare perché così mi punisco. È in questi casi che mi devo sforzare per interrompere il processo mentale. All’inizio era difficile ma col tempo ho imparato a “controllare l’istinto” di non mangiare.
Il cibo come veicolo di emozioni
Che paradosso eh? L’istinto non dovrebbe essere qualcosa che ti spinge a sopravvivere? E mangiare non fa parte dei bisogni primari dell’uomo?
È qui che entra in gioco la mia consapevolezza: il cibo per me non è cibo, è uno strumento che utilizzo nella gestione delle mie emozioni e, più nello specifico, nella gestione della dicotomia piacere/dovere.
Perché io abbia scelto il cibo per comunicare, è cosa a me ancora sconosciuta. Forse perché mangiare è un atto di amore? E forse perché io non mi ritengo “amabile” al punto di meritarlo? Sono domande a cui, grazie alla terapia, troverò la risposta.
Anche per chi ha tanta consapevolezza, come me, serve l’esperto che permetta di comprendere i meccanismi celati nella nostra mente e che offra le chiavi per aprire i cancelli enormi che ci precludono dalla libertà.
Le emozioni non sono un peccato
Ecco, se mi chiedessero ora, “cos’è per te la felicità?” Risponderei “La libertà”. La libertà di scegliere cosa fare senza sentire il peso della responsabilità, senza dovermi chiedere se ciò che faccio è giusto, senza dover pensare. Vorrei liberarmi della voce che mi fa sentire in colpa quando penso a me stessa.
In effetti, questa voce era presente anche da piccola. Mi ricordo di aver avuto un amico immaginario, una fatina. Non so bene l’età né quanto è durato, ma ricordo che dovevo giustificarmi con lei. Le spiegavo perché mi comportavo in un certo modo, le chiedevo scusa. Chissà perchè una bambina doveva chiedere scusa, chissà cosa ritenevo di aver sbagliato.
Fino a qualche tempo fa, ritenevo sbagliato anche provare emozioni. Cercavo di essere il più possibile apatica verso gli eventi. Scansavo le emozioni belle perché credevo di non meritarle, credevo che togliessero tempo al mio dovere e ciò era sbagliato; scansavo, per quel che potevo, eventi che avevano la possibilità di farmi soffrire, perché non volevo soffrire. La sofferenza, il dolore, non li so gestire. Le emozioni forti fanno paura perché non si controllano. Ecco un’altra sfaccettatura del cibo, il controllo.
Avere il controllo, per me, significa che tutto “va bene”, che sto seguendo la “giusta” strada. Che non sto sbagliando. Tutto ciò perché lo sbaglio, l’errore, è visto con accezione negativa. Ebbene, dovremmo capire che sbagliare non è sbagliato, sbagliare è vivere. Altrimenti saremmo delle macchine, degli esseri perfetti che agiscono secondo programma; faremo sì la cosa giusta, ma che emozione dà seguire un protocollo? Un programma?
E che senso ha la vita senza emozioni?
Il cibo è cibo
Il mio proposito per questo nuovo anno?
Mi auguro di guardare il cibo come cibo e non come mezzo per tacere quello che sono.
Mi auguro di imparare a riconoscere le emozioni, ad accettarle, a normalizzare l’errore come parte della vita, a consentirmi di vivere le emozioni senza sentirmi in colpa, a non essere il giudice di me stessa, ad ascoltare non una sola voce nella mia testa (quella del devo), ma tutte altre, quelle belle, quelle che mi rivelano cosa realmente voglio e mi auguro, alla fine, di farlo.
Articolo a cura di Josè che ha raccontato e scritto la sua storia