Ciao, mi chiamo Giorgia e quest’anno ho compiuto 21 anni.
Sono una studentessa di Chimica e Tecnologia Farmaceutiche presso la Sapienza di Roma, dove abito attualmente.
Non pensavo che sarei mai riuscita a raccontare la mia esperienza, ma penso che possa essere un buon punto di inizio per portare avanti la mia lotta contro i disturbi del comportamento alimentare e promuovere la sensibilizzazione di questo tema così delicato.
Non è stato facile scrivere e mettere nero su bianco parte del mio vissuto, in quanto non ho mai dato il giusto spazio al mio malessere, l’ho sempre strozzato e lasciato ingigantirsi dentro di me, senza riuscire a trovare il coraggio di chiedere aiuto.
Mi auguro che la mia storia possa suscitare conforto e rassicurazione in chi vorrà leggerla.
“Quando soffri può sembrarti che questa sofferenza duri per sempre, ma sii certa che non sarà così. L’inverno si trasforma sempre in primavera. Nessun inverno dura per sempre”
Soffro di disturbi alimentari e di depressione da ormai otto anni e in seguito ad un percorso terapeutico molto intenso credo di essere arrivata ad una formazione e lucidità tale da poter essere di aiuto anche ad altre ragazze e ragazzi nella mia stessa condizione.
Com’è iniziato tutto?
Sono nata in un piccolo paese, circondata dall’affetto e dall’amore della mia famiglia, sono sempre stata estremamente empatica e solare e con il tempo ho iniziato a farmi carico di tutto ciò che accadeva intorno a me, sentendomene pienamente responsabile.
I miei cari mi ricordano come una bambina gioiosa e spensierata, nonostante la mia estrema capacità di captare tensioni e circostanze, facendomene carico, iniziando poi a stare male con gli anni.
Ho sempre guardato il mondo con occhi molto attenti, tenendo conto di ogni minuzia. Ho sempre pensato di voler lasciare qualcosa di importante all’altro e portarmi sulle spalle il malessere di chi avevo accanto.
Mi ricordo che ero continuamente alla ricerca dell’attenzione dei miei genitori: mi facevo male di proposito o fuggivo di casa, nonostante io ricevessi sempre molto amore.
Volevo manifestare il mio malessere con questi gesti, fuggendo dalla gabbia che piano piano si stava costruendo.
L’inizio del liceo
Ricordo che tutto ha iniziato a degenerare con il compimento dei 13 anni. La mia adolescenza è stata un percorso molto difficile, fatto di trascorsi molto forti come violenze psicologiche e fisiche.
Con l’inizio del liceo, essendo la più piccola della classe per anticipo del percorso scolastico, ho iniziato a sentirmi ancora più vulnerabile.
La mia fisicità inoltre non rispecchiava la mia età: ero già alta 175 cm e mi sentivo TROPPO.
Ho iniziato a provare paura e vergogna delle mie forme, perché giudicata solamente per il mio aspetto fisico.
Uscivo con ragazzi molto più grandi di me, sperando di trovare una maggiore comprensione ed essere realmente amata, per poi ahimè essere considerata solamente CARNE.
Sono stata vittima di bullismo, sia da parte dei miei compagni di scuola che delle amicizie che frequentavo, perché giudicata come “strana”.
Ricordo di essere sempre stata etichettata per le mie forme e non per il mio spirito. Sono stata considerata più volte come una poco di buono, da parte delle mie amicizie, fidanzati e familiari.
Sono stata allontanata e isolata.
Non ho mai conosciuto persone che mi accettassero e amassero realmente per ciò che ero: il loro fine era diverso, non avevano minimamente interesse nel conoscere Giorgia, volevano usare il mio corpo solo come divertimento o riversare su di me le loro problematiche.
Volevo sentirmi finalmente utile e distaccarmi dall’idea di essere considerata unicamente come CORPO e non come PERSONA.
Crescendo ho iniziato ad odiare il mio essere così sensibile e a sentirmi prigioniera della mia stessa anima. Ho iniziato a provare vergogna.
Ho iniziato ad odiare la mia fisicità con tutta me stessa.
Volevo avere il controllo delle mie emozioni e sentirmi più forte. Così riversavo il mio sfogo sul cibo, punendomi per ogni pasto piacevole che riuscivo a dedicarmi, pentendomene subito dopo e passando le ore davanti allo specchio.
Ho sviluppato una tendenza all’autodistruzione. Mi infliggevo colpe in continuazione e mi vergognavo della mia emotività. A 15 anni ho tentato di togliermi la vita a seguito di un episodio che ha incrementato il mio malessere: una violenza fisica con continue minacce per svariato tempo, durate circa 3 anni. Ho passato gli anni del liceo alla ricerca di comprensione e di compagnie che potessero ascoltarmi e accettarmi.
Ho affrontato un percorso di psicoterapia che ahimè non è stato valido, non avendo mai avuto la forza e il coraggio di chiedere ulteriore aiuto e di confidarmi con la mia famiglia.
Non ho mai parlato del mio malessere, per paura di essere giudicata.
L’università
Con l’inizio dell’università ho iniziato a ricercare la perfezione fisica, comparandola inconsciamente con la perfezione dell’animo, sperando di essere così non più vulnerabile come mi sono sempre sentita. Ricercavo un controllo maniacale di tutto ciò che ingerivo, contando le calorie e allenandomi duramente ogni giorno.
Volevo risultare impenetrabile e forte, quando in realtà gli eventi della vita continuavano a lacerarmi giorno dopo giorno.
Con l’inizio dell’università, volevo finalmente dare una svolta alle mie frequentazioni e ripartire da zero. Puntavo ad un benessere fisico tale da garantirmi anche un benessere mentale. Un progetto che si è rivelato una semplice illusione.
Fortunatamente ho conosciuto delle persone fantastiche, prive di pregiudizi e curiose come me. Finalmente stavo dando la tanto attesa svolta, finalmente stavo iniziando a sentirmi realmente bene, finalmente stavo perdendo il controllo e lasciando libere le redini.
COVID-19
Il 5 marzo 2020 sono tornata a Contigliano, il mio paese natale, lasciando le mie coinquiline e la stanza presa in affitto a Roma, avendo frequentato purtroppo solo 3 mesi di lezione in presenza.
Sono tornata a richiudermi in me stessa, nella mia camera, allenandomi, studiando e contando le calorie in maniera ancora più ossessiva.
Con il tempo ho iniziato ad eliminare i cibi elaborati, riducendomi a mangiare solo pochi alimenti, per privarmi alla fine anche di questi.
I pensieri ossessivi e autodistruttivi con i giorni sono tornati a ripresentarsi in maniera più frequente e gravosa.
In seguito ad ulteriori eventi drammatici di cui mi sono fatta carico, ho ricominciato ad avere ancora più paura della vita rifiutando la fonte primaria di sostentamento, ovvero il cibo.
Passavo i giorni di fronte allo specchio sperando di intravedere un osso in più, un tendine più evidente.
Con la pandemia la mia prigione ha iniziato a stringersi sempre di più. La mia solitudine si è incrementata, raggiungendo una cecità che non mi consentiva di comprendere la bellezza del mondo.
Volevo solo sparire e insieme al mio dolore.
Volevo rendermi apatica e anestetizzare tutte le emozioni che riuscivo a provare, per non soffrire più. Ho anestetizzato i miei bisogni primari, la fame, la sete e il sonno.
Non provavo oramai più nulla.
Non mi sono mai sentita compresa fino in fondo e questo ha generato in me una sensazione di solitudine.
Volevo rendermi piccola e invisibile agli occhi di tutti. Volevo volare via come una farfalla senza lasciare traccia.
Ho passato interi anni della mia vita a mentire sulla mia condizione psicofisica. Ho mentito ai miei genitori per tutelarli, quando in realtà così facendo il disturbo non faceva altro che rafforzarsi.
Poi ho raggiunto la tanto desiderata apatia per il livello estremo di malnutrizione. Finché la mia decaduta non ha toccato il fondo.
Ricordo le notti passate insonni con accanto mia madre e la sua paura di perdermi, tanto che mentre dormivo controllava se io ancora respirassi.
Ricordo il dolore osseo e il freddo provato.
Ricordo lo strazio quando dovevo salire le scale e lavarmi.
Ricordo i continui attacchi di panico e le urla nella mia testa.
Ricordo quella voce straziante che sembrava non averne mai abbastanza.
Ho smesso di camminare, passavo i giorni sul letto guardando il soffitto.
Vedere i miei genitori soffrire così tanto per me mi generava ancora più dolore, che non potevo più sostenere.
Ho iniziato un percorso di ricovero ambulatoriale che, ahimè, non è andato a buon fine.
Un giorno mi hanno ricoverata d’urgenza.
Ho dunque iniziato un percorso di ospedalizzazione che ho poi proseguito in una comunità terapeutica.
Mi ricordo le lacrime versate dalla mia famiglia sul letto del mio ospedale, pregandomi di reagire. Ho deciso di porre fine alla sofferenza dei miei cari proseguendo con il percorso terapeutico, nonostante io non ne avessi la minima convinzione.
Cosa è scattato?
In comunità ho conosciuto molte ragazze che, come me, stavano lottando con tutte le loro forze.
Ero la più grande e dunque sentivo il dovere di dover trasmettere messaggi positivi, sentivo che dovevamo aiutarci a vicenda.
Con il passare dei giorni ho compreso che la mia emotività era lo strumento più forte che possedevo, non la vedevo più come una debolezza. Mi sentivo grata per la mia sensibilità. Così ho iniziato a credere di aver ricevuto il dono più bello di tutti.
Ho imparato a darmi voce e a farmi portavoce della bellezza della vita.
Per otto anni della mia vita, ogni volta che mi trovavo di fronte alle candeline del mio compleanno da spegnere, ho desiderato sempre la stessa cosa: “Abbi coraggio di prenderti cura di te. Che tu possa stare bene”.
Quest’anno posso dire di aver finalmente espresso un desiderio differente.
Sono stati anni difficili e ce ne saranno sicuramente altri, ma li affronterò con mezzi e consapevolezza diversi.
Ho iniziato ad avere fame sì, fame di vita.
Ho finalmente raggiunto quella leggerezza d’animo che ho sempre ricercato, non più con la paura del cibo.
Ho smesso di privarmi di ciò che più mi faceva sentire viva.
Ho imparato ad ascoltare i miei bisogni.
Sì, sono rinata due volte.
La mia guarigione è iniziata con l’ascoltare me stessa e l’accettare le mie mille sfaccettature.
Dare una voce al mio malessere è stata la liberazione più grande.
Dare voce al mio dolore è stata la mia guarigione.
Ho iniziato con il tempo a non sentirmi sempre pienamente responsabile di tutto ciò che mi accadeva in maniera ravvicinata, mi sono liberata delle infinite colpe di cui mi facevo carico.
Ho imparato anche a perdonarmi e ad accettare di non essere sempre compresa. Ho imparato ad accettare che esistono dei LIMITI oltre i quali non è concesso spingersi.
Ho imparato a vivere e ad amarmi.
Io sono Giorgia, non sono più il mio disturbo.
Spero che queste parole possano essere di aiuto per qualcuno e testimoniare che sì, si può guarire.
La luce esiste e ci attende una vita a colori.
Siamo pittori: prendiamone atto, iniziamo a disegnare senza alcuna paura e diamo vita al nostro quadro.
L’articolo è stato scritto da Giorgia, volontaria dell’Associazione, che ha raccontato la sua storia