Per me è sempre stato difficile accettare la perdita, la mancanza, il difetto, l’imperfezione.
Nel mio immaginario, tutto deve essere completamente contenuto nell’esperienza, in una specie di illusione onnipotente (e infantile) secondo cui la realtà può essere congelata una volta per tutte.
Sono cresciuta in un contesto in cui le emozioni sono sempre state bandite perché dolorose, sia quelle positive che quelle negative. Una specie di schermo trasparente, come una pellicola, ha rivestito il mio ambiente familiare.
Uno schermo o una pellicola che possono farti sentire più protetto, ma che al tempo stesso ti limitano nella crescita, nell’affrontare le sfide e le rinunce della vita.
Già da bambina credo di aver avuto una sorta di repulsione nei confronti di questo modo di presentare la realtà, fin troppo intatta e perfetta per essere reale.
Mi sono sempre chiesta: cosa è reale e cosa no? Cosa è solo una mia impressione e cosa è oggettivo?
Questa domanda fondamentale mi ha accompagnata nella crescita, durante la malattia, e a volte mi accompagna ancora oggi.
C’è stata, inoltre, un’esperienza particolare in adolescenza che ha portato questo dubbio ad acuirsi e a infiltrarsi nella mia percezione, in particolare nella percezione del mio corpo. Credo tale esperienza abbia avuto un impatto nello slatentizzare un malessere che già covava dentro di me.
Per contrastare questa presentazione della vita che mi sembrava illusoria, in pre-adolescenza ho iniziato a identificarmi con quel “diverso” inteso come ciò che piace di meno alle persone comuni (secondo quella che era la mia mentalità di allora). Probabilmente volevo opporre, forse un po’ debolmente, un’altra immagine di me a quella che sentivo essermi stata appiccicata addosso dai miei genitori.
Quindi è come se ci fossero sempre state due Tania (se non di più) che cercavano di coesistere.
Da un lato la brava bambina, poi ragazza, che eccelle e non delude mai, praticamente impeccabile (che peso, però). Quindi, di contro-reazione, una Tania impulsiva, che mente, che trasgredisce, che stupisce in negativo.
La reazione degli altri non poteva che essere: “Ma Tania, proprio tu? Ma cosa hai fatto?”. Reazione che io parafrasavo sempre come: “Ma proprio tu che sei perfetta, perché ti sei rovinata così? Come è possibile per te “fallire”, farti piccola, mostrare al mondo che esiste anche il marcio e la sofferenza?”
Ho iniziato a restringere sempre di più quando mangiavo, portandomi sempre più al limite: stavo scomparendo. Tutto ciò insieme a tante altre trasgressioni che restavano tra la luce e l’ombra, tra il detto e il non detto.
Credo che l’Anoressia sia una malattia fortemente contraddittoria, o almeno per me lo è stata. Da un lato pensavo di star andando contro, di rifiutare l’immagine che sentivo essermi stata cucita addosso senza che nessuno mi avesse chiesto il permesso. Dall’altro stavo cercando il mio modo di andare in direzione contraria seguendo proprio la linea di quell’immagine.
Volevo avere un corpo perfetto, per contenere con un involucro invalicabile il mio fragile Sé. Pensavo di non aver bisogno di niente e di nessuno, se non di me stessa e della parte di me che era diventata la mia migliore compagna di vita. La verità è che volevo solo essere vista.
Mi sono sempre sentita come se nessuno volesse superare quell’involucro di vetro, lo stesso che mi ero sentita porre addosso fin da bambina. Non sono perfetta, non sono l’immagine di quello che mia madre è, o di quella che mio padre non si è dato la possibilità di essere.
A un certo punto ho capito che volevo uscirne, che questa poteva essere solo una soluzione temporanea al mio malessere. Mi sono allontanata dalla mia famiglia e sono partita per uno scambio in Inghilterra. Qui ho potuto iniziare a liberarmi di quell’involucro soffocante.
Da lì ogni anno ha rappresentato un cambiamento. Ho riacquistato peso, ma soprattutto ho riacquisito la voglia di vivere e di espormi al mondo.
Tutt’ora per me è molto difficile trovare un equilibrio tra autonomia e dipendenza, tra l’essere me stessa senza farmi invadere dall’Altro e l’accettare di mutare insieme all’Altro, di provare emozioni per l’Altro, di perderlo, eventualmente.
È un processo, lo dico sempre. Credo non si possa prescindere dai propri conflitti, fanno parte della nostra condizione umana. Però, ogni giorno si può imparare a rapportarsi con essi, accettandoli e integrandoli, trovando un compromesso.
Il mio secondo percorso di terapia mi ha aiutata e mi sta aiutando ancora tanto tutt’oggi in questo, ormai da quasi 3 anni.
Dopo la malattia mi sono aperta all’amore per me stessa e per gli altri. La mia prima relazione è stata a 19 anni, molto travagliata ma anche molto intensa. È stata la prima volta nella mia vita che un Terzo è riuscito ad entrare, a oltrepassare quell’involucro di vetro. Come ci si può aspettare, ha rappresentato, in parte, una riproduzione del mio teatro familiare, per cui è finita. Ma devo tanto a questa persona, e quest’ultima a me: ho amato per la prima volta, molto autenticamente e intensamente.
Successivamente, ho avuto diverse frequentazioni ma, anche per paura di essere risucchiata nuovamente in una simbiosi, ho sempre cercato relazioni impossibili e irraggiungibili. L’ultima che ho avuto è stata molto significativa, tanto che sono ancora in contatto con questa persona. Mi ha dimostrato che non devo aver paura di amare, perché non c’è nulla di male nel mostrarsi vulnerabili.
Siamo poi cresciuti in due direzioni diverse, perché io avevo bisogno di spazi che lui in quel momento non aveva consapevolizzato. Da lì si è rafforzato un processo che stava già evolvendo dentro di me da anni ormai.
E oggi?
Oggi cerco di ascoltarmi giorno dopo giorno, di darmi la possibilità di desiderare e perdere, di scegliere, di essere adulta.
È un periodo molto intenso, perché sto per finire l’università e sto cercando di costruire quello per cui ho iniziato questo percorso. Sono partita con tante possibilità, e sto arrivando a una scelta. Non sarà una scelta facile, e sicuramente ne seguiranno tante altre. E lo scoglio attuale è un po’ lo stesso che ci è sempre stato: accettare di perdere, rinunciare, buttarsi nel vuoto, per stupirsi di ciò che si può trovare oltre.
L’articolo è stato scritto da Tania, volontaria dell’Associazione, che ha raccontato la sua storia