Non ho mai parlato del mio “ricovero” per i disturbi alimentari con nessuno e, più avanti, potrete intuire perché ho deciso di scriverlo tra virgolette. È una storia molto lunga e complicata, che ha inizio a Febbraio 2021 quando, dopo essermi stata diagnosticata l’anoressia nervosa presso un centro per DCA, incontro l’equipe del territorio per farmi autorizzare al ricovero in struttura. Ma questa autorizzazione non arriva, perché i medici e gli specialisti mi considerano in grado di portare avanti un percorso dalla mia abitazione: mi prescrivono medicine, mi assegnano una psichiatra e una psicologa e mi rimandano a casa.
L’ingresso in una struttura per i disturbi alimentari
Il mio primo pensiero in seguito a questa situazione è stato: “Non sono abbastanza magra da meritarmi il ricovero”. E così inizio il percorso da casa, con la sola idea di dimostrare a tutti di meritare la struttura e il ricovero. Pensavo sì che il percorso da casa sarebbe stato più completo, in grado di conciliare la cura e la vita di tutti i giorni, ma allo stesso tempo ero convinta che solo l’ingresso in una struttura specializzata avrebbe confermato la mia malattia. Solo con il ricovero sarei stata malata di disturbi alimentari per davvero.
Continuo a prendere le medicine prescritte e vado a tutti gli incontri fissati, ma cerco di fare il possibile per dimagrire e far vedere che merito il posto in struttura.
Dopo vari mesi i medici iniziano a capire che qualcosa nel percorso da casa non va, non funziona come si aspettavano. E così si ricomincia a parlare di strutture. Io, estremamente felice di ciò, finalmente penso di essere “abbastanza grave”.
Troviamo una struttura disponibile ad ospitarmi, portiamo avanti tutta la procedura per il ricovero e fissiamo la data. Il 12 Dicembre 2021 sarei stata ricoverata. Ero contenta, ma allo stesso tempo ero spaventata. Pensavo che finalmente sarei riuscita ad uscire da tutta questa situazione ma, al contempo, ero terrorizzata dall’idea di guarire del tutto dopo i tanti sforzi e i sacrifici fatti per raggiungere il mio obiettivo.
I giorni prima dell’ingresso in ospedale preparo tutto il necessario, cerco di godermi il tempo rimasto assieme alla mia famiglia. Il giorno del ricovero saluto i miei fuori l’ospedale e seguo l’infermiera, che mi porta in quella che sarebbe stata la mia stanza fino all’esito del tampone Covid-19.
La presa di coscienza
Rimango sola in quella stanza e iniziano a venirmi mille pensieri e paure. Più passano le ore e più sento la mancanza di casa. Penso a tutto quello che avevo fuori, a mia sorella, ai miei genitori, agli amici, al mio percorso universitario. Mille pensieri. Inizio a sentirmi sempre più male, chiamo le infermiere e chiedo aiuto. Arriva sera e io non facevo altro che pensare a casa mia. Dopo una notte in bianco decido di parlare con i medici e chiedere di tornare a casa.
Tutti cercano di convincermi a restare in struttura. Tutti mi dicevano che a casa non ce l’avrei mai fatta, che stavo rischiando la vita. La mancanza di casa però era troppo forte e superava di gran lunga qualsiasi altra preoccupazione. Arrivata sera, dopo i vari tentativi dei medici e infermieri di convincermi a rimanere, firmo i documenti della dimissione e torno a casa. Da quel giorno riprende il mio percorso di cura nella mia abitazione.
I disturbi alimentari non hanno una forma
Sono passati quasi due anni da quel giorno: il mio percorso ancora continua, tra alti e bassi, ma sempre con passi in avanti. Ogni tanto penso: “Magari, se fossi rimasta in struttura, sarei già guarita”, ma non mi pento della scelta fatta. Ripenso ai medici che mi dicevano “Da casa non ce la farai” e penso che invece sono ancora qui, forte e resistente, giorno dopo giorno.
Ho deciso di raccontare la mia storia perché arrivi un messaggio a chi legge, sia quest* lettore/lettrice malat* oppure no. Voglio che si sappia e si comprenda che i disturbi del comportamento alimentare non hanno una forma. Non è necessario avere una certa forma fisica o raggiungere un determinato peso corporeo per essere considerati malati e per meritarsi le cure mediche. So che questa è una convinzione e un pensiero che hanno in molti (io lo avevo in primis) ma ora, per esperienza personale, posso dire che non è così.
I DCA sono molto più che un numero sulla bilancia. Si tratta di un dolore dell’anima, qualcosa di profondo. Tante persone soffrono anche senza mostrare un riscontro diretto all’esterno, sul proprio corpo: non per questo la loro malattia è meno valida. Vi chiedo di non pensare mai che la vostra situazione sia meno meritevole di cure rispetto a quella di altre persone. Non esiste alcun motivo per cui paragonare la propria malattia a quella di altri, men che meno a credere di valere meno come persone malate rispetto ad altre persone.
Non arrendetevi, mai, nella vostra malattia e nella vostra guarigione.
L’articolo è stato scritto da Agustina, che ha raccontato la sua storia