Come si spiega a una bambina di 7 anni e mezzo che il mondo non è come nelle favole?
Famiglia unita, vita perfetta con amici fin dall’asilo…
Poi, in quella notte di giugno 2012, mio padre si sentì improvvisamente male sul posto di lavoro e diventò una stella polare (fin da bambina, ogni volta che guardo il cielo e vedo la stella polare, la identifico come papà).
Da lì non fu più lo stesso, mi chiusi notevolmente in me stessa e il binge eating entrò senza neanche bussare alla porta della mia anima; perché i DCA non avvisano, sono malattie e non hanno nulla da risparmiare.
Di base, di mia natura, sono una persona golosa, ma da quel periodo scaricai tutto quel dolore nel cibo, come se esso potesse risolvere tutti i problemi della vita. Facevo finta di essere golosa per nascondere il mio dolore nel cibo.
I disturbi alimentari come filtro tra me e la vita
Quando si parla di DCA si pensa sempre al cibo e al corpo, ma le emozioni e gli eventi della vita giocano un ruolo importante nella malattia.
Le abbuffate mi mandavano in estasi, mi sentivo in pace col mondo… O almeno così credevo.
Nel percorso recovery si capisce che il DCA offusca la verità e la realtà. Una volta che una persona divora il cibo in quel modo non riesce più a fermarsi, ma dopo un po’ ce ne si rende conto: in realtà ci si vuole fermare, ma il dolore è più forte e il corpo ormai non lo si riesce a controllare.
È come salire su una montagna in bici: si sale fino in cima, fino ad arrivare ad un picco e da lì si cade, facendosi male, specialmente se non si sa pedalare.
Il tutto in maniera inconsapevole, fino al discontrollo.
La mia vita era passiva, non uscivo di casa se non per andare a scuola, e ciò proseguì fino al liceo. Non ero protagonista della mia quotidianità, era come se tutto fosse vano. Il DCA era apparentemente l’unica cosa che mi faceva “vivere”, tutto il resto era una forzatura.
Le medie furono il periodo peggiore del binge eating, perché esso si andò a sommare ad un altro problema, il bullismo. Io dovevo dimostrare di stare bene e sono riuscita a farlo con voti alti fino alle prove d’esame: entrai con un 9 e uscii con un 7, perché quando si finge troppo dopo un po’ si molla la presa.
Quegli anni di bullismo hanno toccato pagine di umiliazioni e minacce. Non ho mai denunciato, non ne avevo il coraggio, e fino a mesi fa mi sentivo in colpa: avevo la netta convinzione che se avessi denunciato sicuramente sarei guarita prima; non si vive nel passato però.
Arrivai al liceo con quei segni di sopravvivenza, non avevo minimamente voglia di affrontare la vita, ma soffrivo di binge eating e ancora non mi accorsi di stare male.
Stare male era diventata la mia normalità, le abbuffate erano normali per me, nella mente malata me le meritavo e mi meritavo i miei sensi di colpa, la mia frustrazione e l’apatia. Il bullismo mi aveva manipolata.
Passarono gli anni, a 16 partii per un mese in Francia con una famiglia ospitante e un’esperienza all’estero. Fu stupendo, ma stavo male.
Quel settembre 2019 ci fu un giro di boa: ormai non ne potevo più delle abbuffate e il mio passaggio alla bulimia nervosa fu per mantenere il controllo.
Illusione di controllo, perché mai nulla era abbastanza.
A febbraio 2021 il mio corpo non ne poteva più: era su un filo spinato, sfinito, ma allo stesso tempo mi diede un segnale chiaro facendomi svenire; prova che forse non era ancora pronto ad arrendersi, ma cercava aiuto comunicando all’esterno il mio malessere.
A dicembre 2020 mi diagnosticarono la bulimia nervosa, ma non ci volli credere: “Io soffro di un disturbo alimentare? Impossibile, non sono magra, non sono in un ospedale, mangio… Mi state solo prendendo in giro”.
Tutto ciò ridendo, tutto ciò davanti alla psicoterapeuta, che è stata la figura professionale che non ringrazierò mai abbastanza.
Avevo una visione distorta di quello che mi stava succedendo,
una visione distorta del DCA,
avevo una visione enormemente distorta di me stessa.
Imparare a dare voce alle emozioni
Ora, nel 2023, posso dire di essere a fine percorso, sono e mi sento viva e non torno a stare male.
La musica e la scrittura mi hanno salvata, ovviamente sono stati fondamentali i professionisti, ma l’arte mi ha fatto capire che esistono le parole per esprimersi, la voce soprattutto.
Prima ero capace di esprimermi solo facendomi del male.
Ho sempre pensato di essere ormai un caso perso, perché gli anni nella malattia erano ormai tanti, forse troppi, ma mi sbagliavo.
La vita è composta da alti e bassi, ma ho imparato che farsi del male per sfuggire dagli eventi cercando di evitarli non fa crescere.
Volersi bene è uno dei punti di arrivo: ora non ce la farei più a farmi del male, soprattutto perché penso alla me bambina e lei non se lo merita (come anche ora a 19 anni non me lo merito).
La vita adesso è decisamente migliore: avere obiettivi, fare le stupidate da ragazza di 19 anni, andare in discoteca e fare tutte le mie esperienze.
Il cibo può simboleggiare tante cose, ma non è il rifugio dal dolore; può essere anche semplicemente una necessità, ma non ha moralità: piace, non piace, sta indifferente, ma non risolve i problemi.
Sono stata io a salvarmi con l’aiuto dei professionisti.
La guarigione l’ho trovata quando ho trovato una nuova me, dopo aver compreso di non avere bisogno del DCA per vivere, perché io sono il capitano della mia vita, io posso scegliere la mia vita in base agli eventi che capitano.
L’articolo è stato scritto da Chiara, volontaria dell’Associazione, che ha raccontato la sua storia