Animenta racconta i disturbi alimentari – La storia di Cristina

Sono Cristina, ho 25 anni e vivo a Roma da così tanto tempo che il mio cervello mi ha convinta di non aver mai vissuto altrove.

In realtà, altrove ci ho vissuto eccome. Sono nata nelle Langhe piemontesi un venerdì 17 gennaio alla fine degli anni ’90. La mia vita è cominciata con una coincidenza che ne avrebbe poi segnato per sempre il percorso: nascere in un giorno comunemente sfortunato. E come se non bastasse, ho visto la luce dell’ospedale con un leggero ritardo rispetto alla media: io sono nata da sola, sono nata podalica, in piedi. All’epoca nessuno avrebbe immaginato che mettere i piedi a terra per i fatti miei e tenermi in equilibrio sarebbe stato il fil rouge della mia esistenza. 

Volevo salvare il mondo

Quando ero bambina io avevo un sogno: volevo salvare il mondo. Non come medico, né come fisica e nemmeno come astronauta. Io volevo renderlo un posto più gentile per tutti. Mentre gli altri si perdevano nei labirinti dei mestieri più disparati, io sognavo di prendere il mio pennarello colorato e scrivere. Sognavo di lottare, di combattere a volte. Di infilarmi in armature di piombo e guidare una rivolta per il riconoscimento delle ingiustizie. 

A 3 anni tentavo di copiare le lettere che vedevo nel libro di Alice nel Paese delle meraviglie. Poi a 9 redigevo una petizione e mi inventavo la firma che avrei messo nei documenti istituzionali o negli autografi del mio futuro libro. Perché – diciamocelo – tutti si aspettavano che prima o poi ne avrei scritto uno. Probabilmente immaginavano anche che avrei finito per vincere qualche premio importante in giovane età. Ogni mio scritto era corredato dalla parola “Bravissima”. Ogni festività mi vedeva come prima fra tutti dell’oratorio di paese; collezionavo commenti di adulazione dai genitori dei miei compagni, dalle maestre, da chiunque avesse avuto la possibilità di conoscere quello che riuscivo a fare. “Cri, tu farai qualcosa di enorme” dicevano tutti. E io ci credevo.

E allora cominciavo ad essere troppo precoce con il pianoforte, ultra-precoce con gli sci, e soprattutto troppo in gamba per essere messa dietro le quinte: in qualsiasi spettacolo fossi, io ero la prima. 

Una vita da prima

Una vita che a un certo punto, alla prima scossa di terremoto in zona non sismica, si ruppe in migliaia di frammenti. 

La mia vita da prima nascondeva segreti terribili che non avrei mai confidato prima di tanti anni e davanti ai quali avevo creato una muraglia di cemento armato in grado di mostrare solo la facciata che tutti vedevano.

Da bambina pensavo che mia madre fosse allergica al cibo. Anzi, ancora prima di pensare che ne fosse allergica pensai che avesse un brutto male e che sarebbe morta di lì a poco: ad ogni insalata condita con aceto, poi si sentiva male e rimetteva. Accadeva sistematicamente. Ed io avevo imparato a tapparmi le orecchie, per non sentirne il rumore. 

Avevo imparato a crescere in mezzo alle bilance per carichi, dove mia madre si pesava giorno dopo giorno, alcune volte di nascosto. Sembrava fosse un nostro segreto. E, pur di avere un angolo che fosse nostro e basta, all’interno di un regime come quello che vigeva tra le mura di casa mia, decisi che sarebbe andato bene solo se l’avessimo condiviso, e quindi, quando avevo 8 anni, cominciai a pesarmi insieme a lei. 

La prima cristi

Quando vidi che il mio peso, da sempre sotto la media, stava lentamente cominciando a salire per la crescita, andai in crisi per la prima volta. Ero sempre stata la prima. E anche in questo, anche nel cumulo di pelle, ossa e organi interni che componevano quel numero io avevo necessità di essere la prima. Fu per questo, quindi, che decisi ben presto di intraprendere la stessa dieta che continuava a fare lei. 

Nel modo spasmodico in cui cercavo di coprirmi la pancia, ricordo ancora la visita dal dermatologo che, ridendo, disse a mia madre che quel segno che portavo sull’addome non era parte dell’eczema che avevo su tutto il corpo: era il segno di ciò che lui chiamò “ciccia“. E in quel momento mi parve chiaro che stavo cominciando a crescere, e il peso non poteva più scendere. Che stessi diventando adolescente fu uno schiaffo in faccia e la consapevolezza che quel numero non poteva più essere dove volevo io, mi colpì come un pugno sulle vertebre. Rimasi immobilizzata dalla paura di ingrassare. 

Non ero più la ragazza perfetta

Più gli anni passavano, più diventava palese agli occhi degli altri che io, la prima, quella sempre perfetta, quella che sapeva fare tutto, quella che “avrebbe fatto grandi cose”, in realtà era un’adolescente con evidenti problemi comportamentali. Avevo iniziato a ferirmi di proposito senza farmi vedere. Dal massimo dei voti che avevo sempre avuto, questi iniziarono a calare frettolosamente. Mi sentivo sola. Persa. Mi sentivo spaesata. Mi sentivo in gabbia. Una gabbia di cui non possedevo le chiavi e che ancora non sapevo chiamarsi violenza domestica. Una gabbia che nessuno avrebbe compreso realmente prima dei miei 17 anni.

Ad accorgersi che qualcosa non andava per il verso giusto furono le persone che all’epoca mi stavano intorno. Compresa un’educatrice, una persona che non ringrazierò mai abbastanza per il lavoro che mi fece fare e per la spinta che mi diede ad allontanarmi dal paese in cui ero nata. Prima di ciò, tuttavia, fu necessario un periodo estremamente lungo di terapie iniziate e poi finite malissimo, di farmaci provati e poi interrotti, di diagnosi contraddittorie e certe: come quella per Anoressia Nervosa.

La diagnosi di Anoressia fu un secondo pugno allo stomaco 

Ricordo quel periodo con un po’ di confusione. Nei tre anni di piena malattia il tempo aveva cominciato a dilatarsi e restringersi, a ritmo con la grandezza del mio stomaco, ormai devastato dalle conseguenze del mio disturbo alimentare. Sembrava che fossero passati due giorni, e invece ero nell’ossessione delle calorie e della restrizione da almeno 3 anni. E il peso stava lentamente scendendo, a livelli estremi. Per questa ragione mi fu proposto un centro, lontano da casa. Un centro in cui mia madre si rifiutò di portarmi, a patto che io mi impegnassi a non morire, e che divenne ben presto strumento di ricatto quando scivolavo di nuovo drasticamente nella malattia.

Una notte non qualunque di agosto

Rifiutare quell’aiuto mi convinse che, forse, non ero malata abbastanza. E cominciai a lottare ancora più forte con il bisogno di perdere altro peso. A complicare ulteriormente il percorso arrivò un giorno non qualunque di agosto 2014, il giorno di S.Lorenzo, la notte dei desideri. Avevo 17 anni e avevo deciso che la gabbia fatta di soprusi e violenze decisa da quello che ora fatico a chiamare mio padre, mi stava più stretta di prima. Quel giorno decisi che quel capitolo della mia vita, lo stesso che mi aveva fatto ammalare, sarebbe finito così: una stella luminosa in procinto di cadere e spegnersi. E così feci. Riuscii a salvare le nostre vite, la mia e quella di mamma, dando inizio ad un ciclo infinito di tribunali terminato solo lo scorso anno. 

Pensai che fosse il modo più veloce per limitare il mio dolore. Pensai anche che, forse, se fossi riuscita nell’intento poi sarei stata meglio. In realtà non fu così semplice, perché, mentre vivevo nell’incubo, l’istinto di sopravvivenza aveva preso il sopravvento, ma quando ne fui fuori il dolore prese il suo posto, e cominciai una lenta e inesorabile caduta verso un posto ancora più cupo, fatto di incubi, terrori notturni, allucinazioni e pensieri sempre più distruttivi.

Ottobre 2016

Il vero momento di svolta arrivò ad ottobre 2016, poco più di due anni dopo, quando Cinzia, la mia educatrice, mi supportò nell’idea di lasciare definitivamente le Langhe e trasferirmi altrove. 

“Dove vuoi andare?” Mi chiese. “Roma”, risposi io. Mi ricordai in quel momento che avevo ancora un sogno nella tasca della giacca, un sogno che il mostro e la vita non erano riusciti a portarmi via. 

Io volevo prendere la mia biro colorata e scrivere. Esattamente come quando tentavo di riscrivere le lettere nel libro di Alice nel paese delle Meraviglie, io volevo fare della scrittura il mio mestiere. Volevo fare la scrittrice, spingermi ancora più in là. Volevo fare la giornalista. Sembrava quasi che nel tumulto di situazioni che mi avevano legato braccia e gambe mi fossi dimenticata da dove partivo. 

Me lo ricordai quando mi chiese dove volessi andare, perché mi sopraggiunse immediatamente il ricordo di un desiderio sbiadito dalle intemperie a cui la vita mi aveva costretto.

Un patto

Strinsi un patto, prima con me stessa e poi con mia madre. Se davvero fossi partita, avrei dovuto tenere l’osso ancora più duro. Mi sarei dovuta impegnare per stare meglio davvero. Per non desiderare più di morire. Per non spingere il mio corpo oltre le sue possibilità. Sarei dovuta restare in piedi, di nuovo. Avrei dovuto combattere contro l’istinto di tornare indietro; contro quello di dover proteggere, a costo della mia vita, la vita di mamma; sarei dovuta andare contro l’istinto di tornare a casa. 

E quindi, il 3 ottobre 2016, in un temporale di paure e lacrime nascoste, presi il treno per Roma e non mi guardai più indietro. 

Sono passati sei anni da quella decisione. Sei anni dopo riguardo alla me adolescente con tanta tenerezza e non più meschino disgusto. Mi sono laureata: Lettere Moderne, ovviamente. E poi mi sono iscritta alla magistrale in Editoria della mia università, dove ancora oggi studio. 

Non è stato facile

Mentirei se dicessi che il percorso è stato semplice. Più volte sono ricaduta in vecchi schemi, ma con l’aiuto di chi ho avuto vicino e degli specialisti che con tanta pazienza hanno creduto in me, sono rimasta in piedi. Ho raggiunto il mio obiettivo numero uno: tenermi in equilibrio da sola.

Posso dire di essere sulla via della guarigione, e anche che probabilmente nessuno se lo sarebbe aspettato. Per tanti anni sono stata trattata come un caso cronico, inguaribile, e le diagnosi che mi furono restituite quando avevo diciassette anni risuonavano in me sempre come una condanna a morte. Nessuno credeva che ce l’avrei fatta, che sarei sopravvissuta. E invece eccomi qui, sulla strada giusta.

 A maggio dello scorso anno ho scoperto Animenta, mentre giravo tra i social per elaborare il mio esame di Giornalismo d’Inchiesta. Mi colpii subito la costruzione della community, il modo in cui era stata messa in piedi una struttura solida fatta di amore e condivisione, aiuto per gli altri. Ciò che, quando ero nel pieno della malattia, a me era mancato così tanto. Pensai che, forse, se quello che avevo passato poteva servire a qualcosa, era proprio per aiutare gli altri a capire che non tutto è perduto o fatto per distruggersi.

Fu in quel momento che decisi di prendere parte a questo progetto, di sostenerlo, di provare a dare il mio contributo. Per i ragazzi e le ragazze che ancora lottano, come lotto e ho lottato io, come ha fatto mia madre, e come altre persone che conosco e a cui voglio un bene infinito. 

Il mio passato mi sta ancora con il fiato sul collo ed essere la prima non mi tormenta più. Tante persone hanno messo in dubbio ciò che mi è successo. Io, semplicemente, li guardo facendo finta di niente: io so la verità. E questo mi basta. 

Sono ripartita dal mio pennarello colorato per scrivere una storia nuova, una diversa, senza dolore, senza malattia, senza botte e senza soprusi. Ho messo il punto al capitolo doloroso. 

Ora sono pronta per cominciare un nuovo libro. 

L’articolo è stato scritto da Cristina, volontaria dell’Associazione, che ha raccontato la sua storia

Contenuto a cura di Animenta

PASTA DI SEMOLA DI GRANO DURO LUCANO

Rasckatielli

Pasta Secca 500g

Ingredienti: Semola di Grano Duro Lucano del Parco Nazionale del Pollino, Acqua.

Tracce di Glutine.

Valori Nutrizionali

(valori medi per 100g di prodotto)

Valore energetico

306,5 kcal
1302 kj

Proteine

13,00 g

Carboidrati

67,2 g

Grassi

0,5 g

Prodotto e Confezionato da G.F.sas di Focaraccio Giuseppe
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