Mi chiamo Sara, ho 23 anni e la mia storia ha inizio otto anni fa, o forse ben prima.
È bastato qualche mese per vedermi piano piano spegnere.
La ragazzina solare, spensierata, amante del cibo e della compagnia piano piano veniva sostituita da una Sara ossessionata dallo sport, dalle calorie, dal controllo e dalla perfezione.
Da me stessa pretendevo sempre di più: dovevo essere la migliore in ogni campo, in qualsiasi ambiente io frequentassi. Nel giro di due mesi ho perso così molti chili, ma non solo quelli. Ho perso la serenità, la leggerezza, la fiducia in me stessa, le amicizie e tanto altro ancora.
Ero consapevole di stare male, e forse è stata proprio quella consapevolezza a salvarmi.
Sapevo che passare così tante ore tra i reparti del supermercato per leggere minuziosamente ogni etichetta alimentare non mi faceva bene. Ero certa che avere sempre così freddo non era “regolare”, e che neanche i geloni alle estremità del corpo, i peli sulla schiena, i crampi alle gambe, la pelle macchiata e i capelli spenti lo erano. Eppure non riuscivo a dire STOP.
È stato quando mia madre mi ha chiesto di spogliarmi e mi ha fatto pesare che ho capito di avere toccato il fondo.
Quindici giorni dopo mi sono ritrovata ricoverata in regime di day hospital presso l’ospedale Niguarda di Milano.
Ho avuto la fortuna di essere presa sotto l’ala di una fantastica dietista di nome Adriana, e da lì è cominciata la mia lenta risalita verso la luce, verso la vita.
Ho capito da sola che dovevo lasciare andare il controllo e che dovevo contare sulla stessa determinazione che avevo usato per distruggermi per ricostruirmi.
Devo e voglio essere sincera. Inizialmente mi sono ripromessa di guarire per mia sorella Silvia e per mia mamma Anna, le uniche due persone che non mi hanno mai giudicata né lasciata sola.
Con il tempo, mentre ero impegnata a guarire per loro mi sono resa conto che stavo lottando anche per me stessa.
Così ho accettato tutto. Ho accettato il sondino naso-gastrico, ho accettato che ci fossero delle telecamere ad osservarmi mentre andavo in bagno, ho accettato il fatto di non poter più andare a scuola, di non poter più scegliere cosa e quanto mangiare.
È stato difficile, e tante volte l’anoressia ha avuto la meglio sulla mia forza di volontà.
Dopo otto mesi sono stata dimessa, ma il mio percorso di guarigione è continuato negli anni.
Col passare del tempo ho imparato a conoscere il significato di concetti specifici come “amenorrea ipotalamica” e “osteoporosi”, ma anche di concetti come solitudine e ansia, tutte conseguenze dirette della malattia di cui soffrivo.
Per anni ho pensato di essere guarita, ma mi sono accorta che in realtà avevo semplicemente seguito regole e schemi imposti da altri.
Avevo recuperato peso, ma non avevo recuperato il peso della mia persona, della mia vita.
Non mi ero liberata dagli schemi, mi ero chiusa in me stessa ed esercitavo controllo su tutto ciò che avevo attorno.
Mi sentivo in colpa verso quello avevo fatto a me stessa e alla mia famiglia, pesavo di essere l’unica responsabile della mia sofferenza.
Solo dopo anni, con l’aiuto di una psicoterapeuta e di una fantastica dietista Noemi (che utilizza un approccio non prescrittivo) ho imparato ad amarmi; a rispettare il mio corpo e la mia mente, ad alimentarmi in maniera consapevole, a non vedere più il cibo come giusto o sbagliato, e a non dover più lottare contro me stessa.
La malattia mi ha rubato la mia adolescenza. Ho detto tanti NO, ho rinunciato a gite, aperitivi, cene, feste, appuntamenti. Ripensando a quegli anni avrò per sempre un vuoto che non so se potrà essere colmato.
Tuttavia ho imparato che si può passare attraverso il dolore e poi tornare a vivere.
Ho imparato a staccarmi dall’etichetta di “anoressica” che mi era stata data e che io stessa mi ero data, e ho capito che quella fase della mia vita rimarrà soltanto un pezzo del puzzle di quello che io sono, ma solo uno dei tanti.
L’articolo è stato scritto da Sara, che ha raccontato la sua storia