“Io ho paura del pane”.
Non ho pronunciato queste parole da bambina, durante una di quelle trame tra realtà e finzione che amavo intessere per trascorrere il mio tempo. Le ho scandite quando, per la prima volta, ho dovuto verbalizzare che la mia realtà era governata da una distorsione che di certo non si chiamava immaginazione, ma dolore.
Il primo cibo che la mia anoressia ha prima sradicato e poi esiliato dai miei sensi e dal mio corpo è stato il pane – inizialmente ostracizzato a “una volta alla settimana” e in seguito annientato nei “mai”.
Perché mai, mai e poi mai quel nemico avrebbe dovuto più sfiorare non solo la mia bocca e la mia lingua, ma anche i miei polpastrelli: è da lì, dal contatto con il desiderio, che nasce il primo piacere. E a me era assolutamente negato.
Erano rari i momenti in cui ero capace di liberare la mia mente dall’offuscamento: si trattava di un’operazione delicatissima, che svolgevo con la cautela di chi muove la mano per allontanare la nube di fumo sollevatasi dalla sigaretta di un commensale, senza essere scortese. In una di queste pause, però, emerse prepotentemente una domanda:
Ma perché proprio il pane?
Istintivamente, mi dissi, perché è una fonte di carboidrati, acerrimi nemici di molti di coloro che soffrono di anoressia. Ma l’istinto ha presto fatto spazio alla memoria e, con lei, sono emerse le cause.
Sono certa che la maggioranza delle persone del nostro Paese ha almeno un ricordo che lega la sua infanzia al pane. Per me il pane era semplicemente “il cibo più buono del mondo”. Era il profumo intenso (in Puglia quasi acre) che annusavo; era la mollica in cui affondavo le dita per appurarne la morbidezza; la crosta amara a cui dedicavo sempre il boccone finale. La rosetta di cui conservavo la parte superiore (la più buona per me) da mangiare per ultima. Il pane di Altamura che si tuffava nella passata di pomodorini, rigorosamente senza buccia, o con cui fare le bruschette.
Qualsiasi fosse la sua forma e la sua consistenza, era una presenza certa sulla mia tavola: in posizione trionfante, al centro, adagiato su un tovagliolo di stoffa bianco; sempre.
Tutte le favole si complicano con un “ma” e il mio fu il rimprovero: “non mangiare troppo pane, altrimenti non mangi più niente e non hai più fame”. Nonostante avessi solo pochi anni, ricordo distintamente che in quei momenti mi chiedevo (domandandolo spesso ad alta voce, con annessa ribellione e furto dell’oggetto preteso) perché qualcuno dovesse e potesse decidere per conto mio di cosa avere fame.
Se il pane per me era il “il cibo più buono del mondo” volevo mangiare anche solo quello. A cinque anni la mia proprietà di linguaggio si riduceva a formulare un “voglio il pane per sempre”, ma il concetto era che se avessi mai dovuto scegliere cosa mangiare per il resto della mia vita io avrei scelto il pane.
L’arrivo dell’anoressia e della paura
L’anoressia mangia tutto quello che ami. La prima vittima, dunque, non poteva che essere lui.
Il pane è stato il mio primo vero incontro con il piacere, la mia prima vera scoperta di un gusto che, oltre il sapore, raggiungeva gli spazi dove abita la felicità (quella vera, purissima, dei bambini). Doveva quindi essere annientato: perché, se nella tirannia del mio dovere da anoressica nessun piacere mi era consentito, di certo non potevo autorizzare alcun tipo di accesso all’alimento che da sempre dominava tra i miei desideri.
Da qui, la paura, quella vera, che nasce sempre dall’incontro con l’ignoto. La paura è una reazione attivata da uno stimolo interno (sentirsi vulnerabili) ed esterno (sentirsi in pericolo) il cui fine è garantire la sopravvivenza: per farlo abbiamo un’antologia di possibilità.
La prima è la fuga e, di fronte al pane, lo facevo davvero: via, di corsa. Poi, l’aggressione: violentissima, contro chiunque volesse avvicinarlo a me. Poi, la peggiore: la tanatosi (da thanatos), ovvero il comportamento ancestrale mediante cui anche noi uomini davanti a un pericolo, come gli animali, ci irrigidiamo, simulando uno stato di morte. A cospetto di un “mangiane almeno un po’” l’azzeramento di ogni mia funzione vitale era certo.
L’ultima possibilità contro la paura è la richiesta di aiuto. E io, fortunatamente, l’ho attraversata, fino a guarire. Ciononostante, un residuo della malattia è rimasto per anni impastato alla farina e l’acqua di ogni pane incontrato.
La gioia dopo l’anoressia
I primi amori sono i più grandi, gli insuperabili: e lo sono anche perché, per loro tramite, capisci cosa ami. Il mio primo grande amore mi ha fatto scoprire l’arte gastronomica, insegnandomi inconsapevolmente un linguaggio con cui, da allora, in segreto, io e il cibo comunichiamo: intimo, estetico e sensuale.
La prima volta che ho varcato le porte di un ristorante di “alta cucina” avevo però una certezza: avrei gustato tutto, come avevo già imparato a fare, ma non il pane. Poi, è accaduto l’inaspettato.
Eccolo, trionfante. Tre piccole pagnotte, ognuna con un diverso colore: la prima scurissima, per la farina; le altre due più chiare, scrigni di noci, una, e di olive, l’altra. Accanto, un pane di grani antichi, leggermente tagliato sull’estremità, il cui profumo è rimasto distintamente nella mia memoria. Intorno, grissini di un giallo intenso e sfoglie costellate da semini.
Ricordo in modo preciso l’istante in cui, cercando complicità (e coraggio) da chi mi era di fronte, allungai la mano per toccare, spezzare e portare nella mia bocca un pezzetto (caldo, che meraviglia!) della terza pagnotta. In quel momento ho ricordato perché da bambina dichiaravo di volere ”il pane per sempre”. E da quel momento, alla farina e l’acqua di ogni pane buono è stato impastato il piacere. Il piacere che, come un segugio, riconosco ovunque: dalle tavole di casa alle osterie; dai ristoranti tempestati di stelle a quelli invasi da profumi.
Mangiare è esistere
La paura è rimasta anche dopo l’anoressia, ma, adattandosi a me, è diventata un po’ più sapiente: emerge solo di fronte al pane che nulla ha a che fare con il mio “cibo più buono del mondo”.
Mangiare è esistere. Rifiutare di farlo è urlare un dissenso a questa opzione.
Dicono che non si guarisca mai del tutto e io, che nei miei dialoghi con le pietanze mi destreggio tra rese appassionate e vecchi rancori, non so ancora rispondere.
So però che il mio pane, il pane “buono, buono”, superando la più violenta delle separazioni (quella avvenuta tra il piacere e il corpo), ha vinto là dove nessuno e niente era riuscito: nello spazio della profondissima paura della vita.
Il mio “cibo più buono del mondo”, vita per tutti, per me è ed è stata anche salvezza.
E sì, lo confido, potrebbe esserlo per tutt* l* me, come me.
L’articolo è stato scritto da Stefania, che ha raccontato la sua storia