Caro corpo, scusa: ti ho chiesto troppo. Corpo…non ho mai pensato al tuo significato, al tuo ruolo: avrebbe comportato concederti e concedermi troppo. Al contrario ho preteso da te l’impossibile: poterti domare. E quanto ero arrabbiata con te: tu eri visibile, io no; tu avevi una forma, io no; tu occupavi spazio, io no; tu eri visibilmente esistente, io no. E nonostante tutte queste qualità a te concesse non avevi la generosità di regalare a me il diritto di controllarti. Un diritto che mi spettava, dal momento che ero stata destinata ad essere te.
Essere te, caro corpo, era difficile
Sì, ad essere te. Perché l’idea della mia stessa identità che mi ero fatta, corrispondeva alle tue fattezze. Io ero te, non dentro di te. Non eri il mio involucro o scrigno. Ero io a essere te, mai il contrario, mai che fossi tu ad adeguarti alle mie esigenze. Mai una volta che provassi a metterti tu nei miei panni tentando di essere coerente con il mio modo di essere, di amare, di voler bene, di vivere, di stare nel mondo.
D’altronde sarebbe stato impossibile: ero la prima a non avere idea di chi fossi e non ci tenevo nemmeno a saperlo. L’unica certezza era che era tutto smisurato, sproporzionato, fuori misura. Io ero smisurata, sempre e in qualsiasi situazione. Ti odiavo per questo: tu eri l’opposto. Avevi una forma, un limite e imponevi a me una strozzatura, fuori dalla quale non mi era concesso strabordare. Strozzata in un corpo e costretta a guardarlo. Costretta a guardare anche gli altri di corpi: non per forza più belli di te ma più comodi sempre.
Cercare di cambiarti
Ho fatto di tutto per cambiarti: ho tentato di divorare l’identità di chi mi sembrava avesse un ruolo definito nel mondo, modificando te. A volte riuscivo anche a farti sembrare un altro e allora mi regalavo l’illusione di stare comoda in un te travestito, per qualche settimana. Ma poi la sera in cui ti fissavo e delusa da me stessa ti ritrovavo uguale a prima, arrivava sempre.
Ho tentato di domarti anche non facendoti ammalare mai, lì ho toccato il fondo. Ho preteso la perfezione inesistente, ho preteso un corpo inumano, che stesse sempre bene. Lì qualcosa si è incrinato, perché in effetti mi hai assecondata: ti sei annullato non facendoti più sentire tramite alcun sintomo, alcun dolore, alcun tremolio, alcuna eccitazione. Ed è qui che oltre a scusarmi, devo ringraziarti: come ti ho detto prima, tu per me corrispondevi alla mia identità. Ebbene, la mia identità era come morta, in pausa, tra parentesi. Era empiricamente presente ma senza più avere un senso nel mondo, senza avere più la possibilità di sentire… ed è questo che un corpo dovrebbe fare.
Esistere per sentire, per essere vivi
In effetti la soluzione, la possibilità di stare bene alla quale mi sono aggrappata con tutte le mie forze, è perfettamente coerente e in linea con la tua definizione. Caro corpo, ti volevo perfetto, senza però mai interrogarmi o darti la possibilità di spiegarti, di illustrarmi le condizioni che permettono a un corpo di essere tale. Tu esisti per sentire, non per essere visto: quella è una caratteristica secondaria, che la tua condizione ti implica. Io ho fatto una cosa terribile: ti ho privato a te stesso.
È quando mi hai assecondata che, mentre pensavo avrei raggiunto finalmente la pace, mi sono persa completamente scardinando le tue fattezze dalla mia identità, vedendoti finalmente come qualcosa in cui trascendere. Ci siamo dati una seconda possibilità: tu mi hai permesso di riarredarti, mettere negli scatoloni i pezzi d’arredamento del tuo interno, figli di uno stile che non mi rispecchiava più, che non mi aveva mai rispecchiata. Io ti ho permesso di essere finalmente sentito e non solo, ossessivamente, visto.
Caro Corpo, ci siamo dati una seconda possibilità
Sentendoti, con sorpresa, ho trovato un luogo comodo, una base su cui appoggiarmi per non dover affrontare tutto da sola, come mi sono ostinata a fare per anni. Ora quando mi muovo, quando cammino, quando contraggo i muscoli del mio viso per parlare, per esprimermi senza parole, tu ci sei sempre per me e lavoriamo insieme. Conviviamo in armonia, danziamo insieme per perseguire lo stesso scopo: vivere.
Qualche volta ti ammali; altre volte, svegliandomi e guardandoti, noto che subisci qualche piccolo cambiamento, che mi fa sempre divertire, sia che la Martina di qualche tempo fa lo avrebbe scelto come benedizione giornaliera, sia che lo avrebbe reso sovrano della sua vita per tutta la settimana successiva, perché terribile. Tu mi hai ringraziato per questo, l’ho capito sai.
Mii hai ringraziato per averti sollevato da una responsabilità immane: essere per me l’universale dentro il quale io mi sentivo intrappolata, gridavo e battevo i pugni dal tuo interno, contro le tue pareti. Ora siamo, insieme, un particolare indissolubile, concatenato sì all’universale ma con la consapevolezza che non siamo soli. Ogni storia è la storia di tutti, perché siamo tutti un insieme bellissimo, fatto di corpi diversi ma tutti necessari per la composizione di questo quadro meraviglioso.
Grazie, corpo, per avermi aspettata. Ti amo,
Martina