Partiamo dall’inizio: sono Cristina, biologa nutrizionista, e per sei lunghissimi anni ho sofferto di Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA), con diverse forme e manifestazioni. Durante il mio percorso di guarigione già stavo frequentando l’università di Scienze e Tecnologie Alimentari e, di lì a breve, avrei dovuto scegliere il corso di laurea magistrale.
Un consiglio scoraggiante…
Ricordo ancora quando nel centro in cui sono stata ricoverata ho detto “io voglio essere la *nome della dietista della struttura*”. Come risposta, la dietista in questione mi ha assolutamente sconsigliato di proseguire gli studi per diventare nutrizionista, dato il mio vissuto. Da quel momento, mi sono fatta un’infinità di domande. Dentro di me sentivo di voler studiare nutrizione perché l’alimentazione era l’unica cosa che mi interessava e volevo aiutare chiunque soffrisse di DCA. In passato infatti avevo avuto brutte esperienze con dietisti/dietologi/nutrizionisti che, nonostante il mio evidente rapporto conflittuale con il cibo e con il mio corpo, mi avevano dato diete dimagranti anche estremamente drastiche. Non si erano curati minimamente del mio malessere. Per questo il mio desiderio era, ed è tuttora, quello di essere una nutrizionista diversa, che non tralasci mai l’aspetto psicologico del rapporto con il cibo, che abbia un occhio di riguardo in più.
Mi sono a lungo interrogata…
Dall’altra parte però mi sono chiesta perché quella dietista mi avesse detto che non dovevo assolutamente seguire questo percorso. La sua motivazione era che avrei potuto recare un danno ai pazienti, specialmente a quelli con DCA. Diceva inoltre che lavorare in questo ambito avrebbe potuto danneggiare anche me e riportare alla luce vecchi meccanismi da cui mi stavo finalmente liberando. Mi sono sentita crollare: il mio sogno avrebbe davvero fatto del male a qualcuno?
Ho continuato a lungo ad interrogarmi, anche con l’aiuto della mia psichiatra. Pensavo: “potrei avere una sensibilità in più, perché ci sono passata io in prima persona”… Magari avrei potuto aiutare le persone con DCA perché so bene di cosa si parla. Ma dentro di me risuonavano in continuazione le parole di quella dietista.
Ho seguito ciò che volevo
Ad oggi vi posso dire che ho seguito la mia passione e sono diventata biologa nutrizionista. Sono molto felice di aver ascoltato il mio cuore. Il mio percorso è ancora in evoluzione. Quando ho iniziato il mio primo tirocinio ho in parte capito le parole di quella dietista. Ho capito che non voleva essere cattiva, non voleva distruggere il mio sogno, voleva semplicemente esprimere la sua opinione a riguardo. Iniziare a lavorare come nutrizionista a volte ha effettivamente messo in difficoltà le mie certezze, ma poi ha aumentato la mia consapevolezza e la mia forza. Ora conservo la sua opinione in un cassettino e ne ho costruita anche una mia. Sto imparando ad usare il passato a mio vantaggio. Sto lavorando e mi sto formando per essere la nutrizionista che vorrei, per aiutare le persone che come me hanno sofferto o soffrono di DCA, per prevenire queste malattie facendo il mio lavoro in un certo modo, considerando sempre la totalità della persona che ho davanti e non solo la sua alimentazione.
Non sono la sola..
Ho scoperto nel tempo che tante persone come me hanno scelto un certo percorso di studi perché hanno avuto un certo problema: scopro dai social che molt* nutrizionist*/dietist* hanno in passato avuto un rapporto conflittuale con il cibo. Tornando al tema principale di questo articolo, facendo un po’ di ricerca, ho trovato alcuni articoli che analizzano questo argomento.
Coloro che hanno sofferto di DCA, possono lavorare come terapeuti in quello stesso campo?
Gli studi scientifici a riguardo sono pochi e i risultati, come al solito, contrastanti. Da una parte c’è una percezione, sia da parte dei professionisti, sia da parte dei pazienti e dei caregiver, che coloro che hanno in passato sofferto di DCA possano avere più competenze nel campo, conoscere meglio il problema, le dinamiche, avere più sensibilità, essere più empatici, mostrare più rispetto e meno giudizio. Possono incoraggiare maggiormente i propri pazienti. Questi ultimi potrebbero essere meno imbarazzati a raccontare le proprie difficoltà e vedere i terapeuti come modelli di successo nella guarigione.
Alcuni svantaggi
Dall’altra parte potrebbero esserci degli svantaggi: i terapeuti potrebbero essere troppo coinvolti emotivamente, più vulnerabili e risentirne personalmente, lavorare in questo campo potrebbe essere addirittura un trigger. Un interrogativo riguarda anche la definizione di completa guarigione. Come lo si può constatare? Soprattutto perchè è emerso che se il terapeuta è ancora in una fase di guarigione, la percezione non è positiva. Egli infatti potrebbe anche mancare di oggettività. Potrebbe non vedere l’unicità di ogni singolo caso, riportando tutto alla sua personale esperienza. Allo stesso tempo, potrebbe essere più giudicante del tipo “se ce l’ho fatta io, perché tu non riesci?” o portare un continuo confronto con la propria esperienza.
Ci si chiede anche se il terapeuta debba essere “obbligato” a svelare il suo passato al paziente/ai colleghi per una questione di trasparenza. Su una cosa la maggior parte delle persone coinvolte negli studi sono d’accordo: che a queste persone, che hanno sofferto di DCA e poi sono guarite, dovrebbe essere permesso di trattare pazienti con Disturbi Alimentari. In uno studio, solo l’1.8 % delle persone aveva risposto di no. Diverso è invece per coloro che ancora soffrono di DCA, per cui la maggior parte delle persone aveva risposto che non dovrebbe essere loro permesso di curare queste persone.
Leggendo un altro studio interessante, si apprende che nei Paesi Bassi esiste un centro di trattamento dei Disturbi dell’Alimentazione chiamato Human Concern Foundation, in cui lavorano principalmente terapeuti guariti da un passato DCA e che questo è considerato un punto di forza del centro. Di nuovo, emergono vantaggi e svantaggi, sia per i pazienti che per i terapeuti stessi, ma a bilancio sembrerebbero più i vantaggi.
Experential knowledge vs educational knowledge
Quello che viene più spesso sottolineato è la differenza tra “experiential knowledge” o conoscenza esperienziale e “educational knowledge”, quella che si impara sui libri o a scuola/università, per intenderci. La prima nasce dall’esperienza, da qualcosa che è stato vissuto in prima persona, è sentita profondamente ed è una conoscenza che viene dal cuore. Talvolta è più semplice da usare ed applicare. La seconda invece è più razionale, viene da fuori, più facile da dimenticare e più difficile da applicare. Chiaramente è necessario che questa conoscenza esperienziale venga usata con cognizione; potrebbe essere utile formulare programmi di training e supervisione appositi per i terapeuti in modo da capire come sfruttarla al meglio ed è importante che il tutto venga adeguato alla persona che si ha di fronte e alla sua situazione. Questi, tuttavia, sono solo alcuni esempi delle considerazioni che sono emerse dai pochi studi presenti in letteratura riguardo a questo tema.
Quello che credo…
Quello che penso io è che dipende sempre dal caso e dalla persona e che non è giusto sentirsi dire che non potremo mai fare un determinato lavoro. Serve secondo me coscienza e auto-consapevolezza. Credo sia giusto lasciare a noi la decisione di poter fare o non fare un certo lavoro senza sentirsi dire “non dovresti farlo”. Mi trovo d’accordo con il fatto che sia utile essere messi al corrente dei pro e dei contro di una determinata scelta. Anche una formazione apposita può rivelarsi fondamentale, come del resto serve per tutti coloro che si occupano di questi disturbi. Affiancata poi da una supervisione approfondita per capire come utilizzare la propria esperienza in modo costruttivo e benefico.
Non guardo al mio passato come a qualcosa di negativo, come a qualcosa in meno che ho rispetto agli altri. Sento invece di avere un bagaglio in più, uno zaino pieno di strumenti che posso cercare di sfruttare ed usare a mio vantaggio per me e soprattutto per aiutare gli altri.
Bibliografia
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L’articolo è stato scritto da Cristina, volontaria dell’Associazione