I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) sono patologie complesse e potenzialmente letali che colpiscono individui di ogni razza, etnia, identità di genere, orientamento sessuale e contesto socioeconomico. Nonostante le ricerche dimostrino la diffusione dei Disturbi Alimentari tra diversi gruppi della popolazione, molte persone continuano ad associarli esclusivamente a donne giovani, bianche, eterosessuali e cisgender. A tale riguardo, un articolo del Toledo Center for Eating Disorsers sottolinea che i luoghi comuni sui Disturbi Alimentari, su chi ne soffre e su come si manifestano i sintomi possono portare a pericolose disattenzioni nella diagnosi e nel trattamento di queste patologie nelle minoranze e nella popolazione gender-diverse.
Secondo le ricerche condotte sull’argomento, la comunità LGBTQIA+ mostra una frequenza di Disturbi Alimentari più alta rispetto alla popolazione eterosessuale e cisgender. Inoltre, le persone LGBTQIA+ sperimentano sintomi più gravi nel momento in cui accedono alle cure.
Gli studi indicano anche che determinati gruppi della comunità LGBTQIA+, in particolare coloro che si indentificano come transgender o non-binary, corrono un rischio più elevato di sviluppare un DCA. Nonostante la mancanza di ricerche approfondite sulla relazione tra sessualità, identità di genere, immagine corporea e Disturbi Alimentari, sappiamo che le persone LGBTQIA+ sperimentano specifici fattori di stress che possono contribuire all’insorgenza di un Disturbo Alimentare.
Fattori di rischio e fattori protettivi
Secondo un articolo dell’associazione NEDA, i principali fattori di rischio che possono contribuire allo sviluppo di un Disturbo Alimentare nelle persone LGBTQIA+ includono:
- Il rifiuto o la paura del rifiuto da parte di amici, familiari e colleghi;
- L’interiorizzazione di convinzioni e messaggi negativi su sé stessi dovuti all’orientamento sessuale o all’identità di genere;
- Esperienze di violenza e disturbo da stress post-traumatico, che, secondo le ricerche, aumentano considerevolmente la predisposizione a un DCA;
- La discriminazione e lo stigma dovuti all’orientamento sessuale e/o all’identità di genere;
- Il bullismo dovuto all’orientamento sessuale e/o all’identità di genere;
- L’impossibilità di raggiungere determinati standard di immagine corporea in alcuni contesti culturali LGBTQIA+.
Per quanto riguarda i fattori protettivi, ovvero l’insieme di risorse e condizioni capaci di prevenire l’insorgere di DCA nelle persone LGBTQIA+, i più importanti includono:
- Il sostegno della famiglia, della scuola e degli amici;
- L’autocompassione, ovvero un atteggiamento di comprensione e gentilezza verso sé stessi.
Disturbi Alimentari nelle persone LGBTQIA+: cosa dicono i dati?
Le ricerche esistenti sui Disturbi del Comportamento Alimentare nella popolazione LGBTQIA+ dimostrano quanto segue:
- Gli adolescenti e gli adulti omosessuali, bisessuali e transgender mostrano un’incidenza di Disturbi Alimentari e comportamenti alimentari disfunzionali più elevata rispetto alle loro controparti eterosessuali e cisgender.
- I membri della comunità LGBTQ+, in particolare coloro che si identificano come maschi transgender, corrono un rischio più alto di sviluppare insicurezze legate al cibo, Disturbi Alimentari e depressione.
- Gli studenti universitari transgender hanno una probabilità quattro volte maggiore di riportare una diagnosi di DCA rispetto alle loro controparti cisgender.
Nel 2021, uno studio particolarmente significativo è stato condotto da The Trevor Project, un’organizzazione americana che si concentra sulla prevenzione del suicidio nei giovani LGBTQ+. L’indagine ha rivelato una correlazione tra i Disturbi Alimentari e i tentativi di suicidio nei giovani LGBTQ+. In particolare:
- Quasi nove giovani LGBTQ su dieci (pari all’87%) hanno espresso insoddisfazione nei confronti del proprio corpo.
- Gli adolescenti e i giovani adulti LGBTQ con una diagnosi di Disturbo Alimentare hanno una probabilità quasi quattro volte maggiore di tentare il suicidio rispetto ai coetanei che non hanno mai sospettato di soffrire di DCA o non hanno ricevuto una diagnosi.
- Gli adolescenti e i giovani adulti transgender e non-binary hanno riportato un maggior numero di tentativi di suicidio rispetto ai giovani LGBQ cisgender; tuttavia, la correlazione tra DCA e tentativi di suicidio si è dimostrata forte per entrambi i gruppi.
Disturbi Alimentari nella popolazione LGBTQIA+: le difficoltà di accesso alle cure
Come si afferma nell’articolo di NEDA precedentemente citato, le persone LGBTQIA+ non solo sono esposte a un maggior rischio di sviluppare un Disturbo Alimentare, ma possono anche incontrare difficoltà nell’accedere alle cure necessarie per affrontare la malattia. Il principale ostacolo al trattamento è rappresentato dalla carenza di servizi di cura inclusivi, che a sua volta è legata alla mancanza di:
- Un’adeguata formazione sui Disturbi Alimentari tra i fornitori di servizi sanitari per persone LGBTQIA+;
- Professionisti specializzati in DCA che siano formati per lavorare con individui LGBTQIA+.
Di conseguenza, molte persone LGBTQIA+ accedono tardi al supporto necessario.
Lo stesso articolo evidenzia che le persone della comunità LGBTQIA+ hanno maggiori probabilità di subire forme di discriminazione, maltrattamento e rifiuto da parte dei professionisti della salute e della salute mentale rispetto al resto della popolazione. A tale riguardo, uno studio del 2022 ha rilevato che, in quell’anno, più di un adulto LGBTQIA+ su cinque ha rinunciato alle cure mediche a causa della discriminazione attuata dagli operatori sanitari. Dalla stessa indagine è emerso che una persona LGBTQIA+ su tre aveva subito maltrattamenti da un professionista della salute mentale.
Questi dati mettono in evidenza l’importanza cruciale di offrire programmi di cura inclusivi che supportino le persone LGBTQIA+ con Disturbi Alimentari. Ciò implica la necessità di assicurarsi che tutti gli specialisti coinvolti nella cura dei DCA siano adeguatamente formati per lavorare con pazienti LGBTQIA+. Infatti, è fondamentale che questi professionisti abbiano le competenze e la sensibilità necessarie per trattare le difficoltà specifiche delle persone LGBTQIA+, rispettare le loro esigenze e comprendere le sfide individuali di ogni paziente. Sapere di poter chiedere e ricevere aiuto potrebbe incoraggiare più persone a iniziare un percorso di terapia, compiendo così il primo passo verso la guarigione.
L’articolo è stato scritto da Sofia, volontaria dell’Associazione