I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) sono patologie molto complesse, a metà strada tra psichiatria e medicina interna, tra corpo e anima. Sono vere e proprie malattie mentali con conseguenze fisiche. Il loro trattamento richiederebbe un’organizzazione sistematica sul territorio con servizi sanitari mirati in base all’evoluzione e agli stadi della malattia.
Purtroppo la sanità pubblica non ha ancora trovato una risposta adeguata per far fronte ai bisogni plurimi di questo tipo di pazienti. Nella maggioranza dei casi essi non vengono infatti indirizzati a un luogo appropriato di cura, ma sono demandati a reparti di psichiatria, di neuropsichiatria infantile o di medicina interna, privi di figure professionali specifiche e preparate a fornire l’assistenza necessaria a questa tipologia di pazienti.
Luoghi che concentrano nello stesso spazio tutti i possibili fattori di rischio e dove la contaminazione reciproca degli aspetti psichiatrici dei loro coinquilini è all’ordine del giorno. Anche a causa della duplice natura, fisica e psichica, della malattia, i cui sintomi si presentano con forme e tempi diversi, esiste tutta una gamma di situazioni intermedie tra il caso estremo e la quotidiana visita ambulatoriale a cui il sistema riesce a dare risposta solo in maniera parziale. Inoltre sussistono enormi differenze a livello territoriale/regionale: in alcune aree i servizi sono eccellenti, in altre c’è poco o niente e non esiste un’offerta standardizzata. Il paziente con DCA che si rivolge a una struttura sanitaria rischia spesso di restare impantanato in un sistema labirintico di burocrazia, assegnazioni e trasferimenti mentre l’accesso a servizi di qualità resta un privilegio essenzialmente demandato al caso, alla fortuna.
Attualmente il modello di cura funziona su due binari. Il primo, quello verticale, che prevede diversi layers a seconda del livello di gravità che il paziente presenta; il secondo, orizzontale, che interconnette le strutture specialistiche sparse sul territorio, nell’ottica di creare una rete di professionisti che sopperisca alla scarsità di risorse mediche ad hoc in questo campo.
Una premessa…
Una doverosa premessa prima di proseguire. Un sistema così pensato deve potersi avvalere di un flusso informativo perfetto basato sulla multidisciplinarietà delle figure coinvolte. Questo significa che ogni membro dell’équipe (tipicamente psichiatra/psicologo, infermieri, nutrizionisti, medici di medicina interna) deve essere in possesso di tutte le informazioni cliniche riguardanti il paziente, compresi i farmaci in somministrazione e/o somministrati, così come eventuali trattamenti precedenti.
Idealmente l’équipe fa riferimento ad una figura “capo” di gestione del caso clinico, che rappresenta il comune denominatore dei singoli professionisti. Questi ha il compito di coordinare il gruppo e rivedere periodicamente i risultati del trattamento, eventualmente valutando la necessità di interventi aggiuntivi, più incisivi o che seguano un approccio diverso.
È chiaro che stiamo parlando di un struttura ideale che, nella realtà dei fatti, si scontra con evidenti difficoltà, prima su tutte la condivisione puntuale e completa delle informazioni. C’è anche un altro aspetto che riveste una certa importanza: il linguaggio dei medici “del corpo” è molto diverso da quello dei medici “della mente”, nella misura in cui i primi sono meno empatici e maggiormente interessati al ristabilire il benessere fisico della persona, mentre i secondi sono coloro a cui è demandata l’indagine dei pensieri, dei sentimenti e delle reazioni del paziente. La complementarietà della comunicazione tra i due tipi di figure, così come della rilevanza dei due compiti, è fondamentale.
I rischi di una mancata comunicazione
In loro assenza, le cure risultano approssimative, incomplete e spesso vengono abbandonate perché il paziente non riesce a intravederne la struttura e l’obiettivo, mentre resta vivo un senso di confusione sul percorso intrapreso e di sfiducia nella possibilità di ottenere un trattamento adeguato. Questo dato è aggravato dalla caratteristica principe di queste patologie, ovvero la negazione della stessa da parte di chi ne è affetto: nella maggior parte dei casi, quindi, un paziente che “subisce” una cura approssimativa e non è per niente convinto dei motivi e dello scopo per cui l’ha intrapresa, finisce con l’abbandonarla ancor prima di poterne vedere pregi e difetti.
Gli stadi di cura di un DCA
Coloro che invece non abbandonano le cure solitamente affrontano uno dei seguenti stadi di assistenza, pensati per far fronte ai diversi profili evolutivi della malattia:
- Medico di medicina generale
- Terapia ambulatoriale specialistica
- Terapia ambulatoriale intensiva in centro diurno/day hospital
- Riabilitazione intensiva residenziale
- Ospedalizzazione
Il medico di medicina generale
Il primo livello è fondamentale soprattutto per l’individuazione precoce dei sintomi che potrebbero nascondere un Disturbo Alimentare. Un medico di famiglia dotato di una buona dose di sensibilità, lungimiranza e con la capacità di porsi delle domande, potrebbe individuare la malattia prima che essa dilaghi, ottenendo quindi il vantaggio di una diagnosi anzitempo e di cure più tempestive.
Oltre all’educazione e alla responsabilizzazione dei medici di base verso i segnali di allarme più comuni, la pratica associa una serie di strumenti standard che sono usati per stabilire se il paziente sta vivendo un DCA o potrebbe soffrirne nel futuro prossimo. Essi tipicamente sono una perdita o aumento di peso importante, con conseguente indice di massa corporea molto alto o molto basso, la paura irragionevole di ingrassare, la costante preoccupazione per la forma del corpo a cui si associano disturbi mestruali e gastrointestinali, disturbi del tono dell’umore, isolamento sociale e ansia. Accertata l’esistenza di segnali allarmanti, il medico di base, potendo contare sulla rete di specialisti, invia il paziente al professionista o alla struttura adeguata al livello di gravità della diagnosi.
La terapia ambulatoriale specialistica
Tipicamente la fase successiva, a meno che non sia accertato un caso i cui parametri fisici siano già compromessi sensibilmente, è il trattamento ambulatoriale. L’ambulatorio è un luogo di incontro tra soggetto e specialisti, dove si privilegia l’approccio psicologico/psichiatrico e che è pensato per evitare di stravolgere la quotidianità del paziente che ha il primo contatto con la terapia.
Il fatto che la sessione possa essere inserita nell’ambito dello svolgimento normale della vita di coloro che intraprendono la terapia determina un tasso inferiore di abbandono della stessa, probabilmente proprio perché il paziente non è costretto a modificare radicalmente la propria routine e ha una percezione minore della fatica che è associata alla guarigione. Lo specialista può valutare nell’ambito del trattamento se inserire anche una terapia farmacologica: ad esempio, molti pazienti affetti da DCA potrebbero sperimentare disturbi del sonno, ansia, disturbi depressivi.
L’uso di psicofarmaci ha un ruolo coadiuvante la terapia e serve per ripristinare alcune delle funzioni psichico-cognitive del paziente. In assenza di queste infatti, portare avanti una terapia risulterebbe pressoché impossibile. Non esiste però in Italia un farmaco che sia direttamente associato alla guarigione da un DCA o che ne possa attenuare sensibilmente gli effetti.
La famiglia di approcci terapeutici usata nell’ambito della cura dei DCA fa capo alla cosiddetta “Cognitive Behaviour Therapy (CBT)”. Questa terapia postula una complessa relazione tra emozioni, pensieri e comportamenti. Mette in evidenza come i problemi emotivi siano in larga parte il prodotto di credenze disfunzionali che si mantengono nel tempo e che alterano i comportamenti finali. Essa si propone quindi di aiutare i pazienti ad individuare i pensieri ricorrenti e gli schemi disfunzionali di ragionamento e di interpretazione della realtà. Lo scopo è quello di sostituirli o integrarli con concetti e osservazioni più razionali ed efficienti.
La terapia ambulatoriale intensiva: il centro diurno o il day hospital
La terapia ambulatoriale intensiva, che in genere si svolge in un centro diurno o in day hospital, è pensata per coloro che non rispondono alla terapia ambulatoriale tradizionale. Si rivolge in modo particolare ai pazienti che, pur avendo seguito il trattamento, presentano parametri fisici problematici e, nonostante ciò, non sono in grado di cambiare le proprie abitudini alimentari. Non stiamo parlando solo di persone in situazione di costante sottopeso ma anche, per esempio, di coloro che soffrono di abbuffate e condotte di compenso e che tendono a mantenere lo status quo.
La modalità nasce proprio per affrontare queste specifiche difficoltà, dove il trattamento ambulatoriale specialistico non può arrivare. Dal momento che questo livello coinvolge i pazienti per buona parte del giorno, la soluzione migliore è il contesto clinico dove si possa creare un ambiente confortevole e accogliente. È importante che vi siano zone per lo svago, zone per lo studio, una cucina e una sala da pranzo dove l’alimentazione venga assistita, rispetto all’atmosfera fredda e medicalizzata dell’ospedale.
Questa fase prevede che il paziente frequenti la struttura tutti i giorni ad eccezione del week end, in genere dall’ora del pranzo fino a cena. L’obiettivo è quello di somministrare pasti adeguati dal punto di vista nutrizionale in un contesto sociale, in modo che il paziente rinunci al costante controllo delle calorie o a nascondersi per abbuffarsi. Inoltre, sono previste due sedute di psicoterapia individuale, due visite dietologiche e un controllo medico alla settimana. Il coinvolgimento dei familiari o delle persone più strette è importante non solo come generico supporto psicologico, ma anche per facilitare le nuove abitudini nella transizione al contesto domestico.
La riabilitazione intensiva residenziale
Quando i precedenti trattamenti non suscitano le risposte attese da parte del paziente ed esso presenta un rischio psichiatrico e fisico non adatti al contesto della clinica, subentra evidentemente la necessità di riabilitare la persona in modo intensivo. Questo comporta il coinvolgimento di un’equipe multidisciplinare che, in genere, opera in un reparto nutrizionale o psichiatrico all’interno di un ospedale. Il punto di partenza è chiaramente più grave. L’obiettivo è, in questo caso, il recupero di condizioni di stabilità fisiche e psichiche da parte del paziente. Questo ne favorisce il reinserimento in un contesto sociale di tipo aperto con il supporto della sola terapia ambulatoriale.
La procedura prevede sedute di terapia singola ma anche di gruppo, pasti assistiti, terapia farmacologica e un processo di ri-educazione della persona riguardo l’importanza del corpo inteso in senso estetico e del peso, nonché dei meccanismi di mantenimento del Disturbo Alimentare e le strategie per affrontarli. In genere gli obiettivi possono anche essere raggiunti in un lasso di tempo relativamente breve, 90 giorni, perché l’urgenza della situazione richiede interventi multipli veloci e mirati.
Tuttavia il momento più delicato, che se non gestito bene rischia di vanificare tutto il lavoro svolto, è la dimissione post-ricovero. La persona si trova infatti nuovamente esposta agli stessi fattori di rischio che l’hanno portata all’ingresso in una struttura di cura. In questo caso, il coordinamento tra unità riabilitativa e ambulatorio specialistico è fondamentale. Questo favorisce, almeno per il primo mese dalla dimissione, che la persona sia seguita più da vicino da parte del professionista, con il quale deve poter instaurare abbastanza velocemente un rapporto di fiducia. Per questa ragione, le sedute di terapia del primo mese sono solitamente organizzate con cadenza bisettimanale o almeno settimanale.
L’ospedalizzazione
Scendendo un ulteriore gradino, l’ultimo, arriviamo alla fase del ricovero ordinario per malnutrizione grave. Questo avviene in presenza di uno o più parametri fisici che oltrepassano la soglia di allerta, come ad esempio un indice di massa corporea inferiore a 12, ritmo cardiaco misurato sul polso inferiore a 60 battiti/minuto, temperatura corporea inferiore a 34.5 gradi.
Purtroppo, non è inusuale in questa fase dover ricorrere all’alimentazione artificiale per via endovenosa o mediante sondino gastrico, perché la gravità e l’urgenza della situazione richiedono un’immediata stabilizzazione medica. Questo significa che non è possibile aspettare il tempo tecnico che sarebbe necessario affinché il paziente sia psicologicamente pronto a nutrirsi autonomamente per via orale.
Il ricovero dovrebbe poter essere svolto in un reparto di medicina interna in cui sono riservati dei posti letto per la gestione dei DCA, oppure dove siano presenti medici e infermieri abilitati al trattamento di queste patologie; talvolta il ricovero può avvenire in reparti psichiatrici, che però non sono la scelta ottimale a meno che il paziente non debba ricevere un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio).
L’assistenza orizzontale
Per quanto riguarda la dimensione orizzontale del modello di assistenza, a livello regionale dovrebbe esserci un centro di coordinamento che abbia il ruolo di:
- Controllo sull’evoluzione e sulla rapidità di diffusione dei DCA. Per esempio, evidenze empiriche dimostrano che la pandemia ha esacerbato a dismisura la richiesta di interventi specialistici per la cura di comportamenti alimentari disfunzionali, ma ancora una volta chi si rivolge a una struttura specialistica viene inserito in una lunga lista d’attesa per mancanza di risorse disponibili.
- Prevenzione
- Coordinamento e programmazione con le cliniche specialistiche, le unità di riabilitazione intensiva, i reparti di ricovero ordinario, con lo scopo di creare una rete a maglie strette per l’impiego efficiente dei professionisti sparsi sul territorio.
- Ricerca, intesa sia come divulgazione informativa e sensibilizzazione verso quelli che purtroppo ancora ad oggi spesso sono considerati dei “capricci” e non delle vere e proprie patologie; sia come studio di nuove tecniche, terapie e modelli di cura, che possano restituire la voglia di combattere a chi vive tutti i giorni prigioniero della malattia.
L’articolo è stato scritto da Federica, volontaria dell’Associazione
Bibliografia e sitografia
Hilde Bruch, Biblioteca di Psichiatria e di Psicologia Clinica, “La gabbia d’oro. L’enigma dell’anoressia mentale”, Feltrinelli, ed. 1996
Carlotta Dotto, “Disturbi alimentari: le cure che mancano”
Riccardo Dalle Grave “Un modello di gestione clinica dei disturbi dell’alimentazione”
http://www.dallegrave.it/un-modello-di-gestione-clinica-dei-disturbi-dellalimentazione
Ministero della Sanità, Linee di indirizzo nazionali per la riabilitazione nutrizionale nei disturbi dell’alimentazione. Quaderni del Ministero della Salute
https://www.salute.gov.it/portale/quaderni/sfogliabili/29/mobile/index.html