La porta è chiusa e oltre i riquadri in vetro smerigliato non si scorge che un riflesso fioco e tremulo. Busso piano: il silenzio è talmente presente che potrebbe lui stesso emettere un suono.
Ma non si rompe, mantiene la suspance e accompagna con tono sfacciato la tua assenza.
Perché lo so che ci sei.
Hai acceso una candela, ore fa: quel che ne resta ti dà ancora un po’ di distrazione dal buio totale che senti dentro.
Abbasso la maniglia, cigola dalla disabitudine. Se il mio sentire non fosse abituato a coglierti dove non ti si vede non avrei dubbi sul vuoto della stanza.
Ma lo so che ci sei…
A destra il letto, al centro la scrivania ingombrante piazzata davanti alla finestra già oscurata. A sinistra l’armadio colorato, di cui si intuisce a malapena il brio tipico delle camerette da bambina.
E tra il letto e il muro, dietro la tenda che arriva al pavimento freddo, ti intuisco.
Avvolta nella coperta, seduta a terra. La tua fronte è appoggiata alle ginocchia, raccolte a toccare con i talloni i glutei gelati.
Le tue braccia ti avvolgono le gambe. Formi il bozzolo di un baco esangue: hai provato tanto, ma le ali di polvere e colore non sono uscite, neanche stavolta.
In solitudine
Ancora sottoposta a gradi di giudizio senza sentenza, ancora accarezzata con casualità e indifferenza. Ancora non scelta se non per opportunismo, senza alcun interesse, né sguardo, né desiderio o curiosità.
Non tu, piccola cara.
Non tu, ancora.
Non tu, la tua vera essenza affossata, come indegna, incompresa, inesplorata.
Stai combattendo tra la resa e la paura, in attesa della rinascita
Mi avvicino cauta. Ho paura nell’ascoltare i residui di singhiozzi, il respiro stanco, la trascuratezza acida del fiato.
Sono vicina: provo ad allungare una mano, ti cerco la spalla: “Sono io”.
“Sono qui”.
Non rispondi, non reagisci. Stai combattendo tra la resa e la paura.
“L’hai fatto molte volte, puoi riuscirci di nuovo”.
Aspetto. Lo so che vuoi crederci. Lo so che credi di poterlo volere. Lo so che vuoi volerlo. Aspetto.
Ti sfioro la spalla, la stringo un po’. Ti accoccoli sotto le mie dita con un impercettibile sospiro esausto. L’ultimo dell’agonia, il primo della pagina che, lo so, vuoi girare di nuovo.
Magari, chissà…
Mi sposto, mi accovaccio di fronte a te, ti accarezzo la testa.
“Preparo una tisana, tu intanto lavati la faccia e i denti. Ti aspetto di là”.
Sono minuti preziosi, sono quello spazio che divide abissalmente il “no” e il “forse”. Magari. Chissà.
Temo di non sentirti arrivare, temo di trovarti ancora più piegata sul tuo dolore, sotto la coperta di paura e stanchezza.
Ti infondo coraggio con il pensiero, mentre le mie mani sono impegnate nello scaldare l’acqua, nel mettere la bustina nella tazza.
E la sento. La maniglia che cigola. L’ombra del tuo fagotto che copre il riflesso fioco e tremulo della candela quasi del tutto consumata.
Brava bambina mia. Brava, mille volte brava.
Ti abbraccio, sei ancora un po’ rigida, ma il peggio è passato, lo sai. Mi sorridi sbilenca di labbra. Brava bambina mia.
Rinascita e riscoperta
Il momento in cui si comprende di star soffrendo di una malattia mentale come un disturbo del comportamento alimentare non è mai semplice. È un momento di tensione, di dolore e di insicurezza. Ma, superata quella fase, inizia quella della riscoperta. Una riscoperta di sé e del mondo. Una rinascita dalla malattia.
Questa rinascita richiede coraggio e fatica, oltre che a tanto supporto da parte dei cari. Questa rinascita richiede parole d’amore, di sostegno, di alleanza contro una realtà (quella della malattia) che deve essere distrutta. Per far crescere una realtà nuova, sana, migliore.
L’articolo è stato scritto da Patrizia, volontaria dell’Associazione