Ti ho sentito di nuovo ed eravamo sulla stessa barca

Al mio corpo.

Ti ho odiato, maltrattato, preso a pugni, ferito, medicato, accarezzato, abbracciato, protetto… Ho scrutato ogni singolo pezzo di pelle che ti componesse trovando puntualmente solo difetti, imperfezioni e grasso (a volte anche quando non c’era). 

Non abbiamo mai avuto un bel rapporto io e te, hai sempre fatto vacillare quell’anima forte, libera e ribelle che intrappoli dentro, ogni volta che ti palesi nel riflesso allo specchio. 

Ti ho sempre definito un brutto involucro. 

Ho provato a cambiarti, a trasformarti, a rendermi giustizia cercando di farti diventare un contenitore di vetro, trasparente, forte, ben definito e soprattutto in grado di rispecchiare e materializzare quell’anima che trattiene dentro.

Ad oggi, dopo ben ormai cinque o forse sei anni da quando è iniziato tutto, ancora non sono riuscita nell’ardua impresa, anzi forse ho solo peggiorato le cose! 

Era un giorno di maggio, mi sentivo forte, ero (e mi vedevo anche) finalmente magra, asciutta e tonica; iniziavo dopo ben diciotto anni a non dirmi più di fare così tanto schifo, anzi senza sbilanciarmi troppo iniziavo quasi a piacermi. 

Mi ero affezionata a te come una crisalide si affeziona alle sue nuove ali dopo essersi vista larva per troppo tempo. 

Ma, proprio come succede alle farfalle, la vita con le ali è durata ben poco. 

Gli sguardi delle persone, i commenti al nostro passare, la preoccupazione quasi diventata ossessione da parte dei famigliari più stretti si facevano sempre più forti.

“Mangia, sei troppo magra!”

“Ti si vedono le ossa”

“Se continui così diventi anoressica”

“C’è qualcosa che non va”

“Fai troppo sport”

“Perché non lo mangi?”

Nessuno che, prima ancora di tutta questa confusione creata da tante troppe voci riunite in un tribunale giudicante, ci chiedesse realmente: “Come stai?”.

Ecco, io lo so e tu lo sai, che se qualcuno, prima di giudicare, avesse usato questa breve e semplice frase molto probabilmente avremmo risposto così:

“Sto bene, ma davvero bene, forse in diciotto anni di vita non sono mai stata meglio, ho finalmente la mia routine, il mio equilibrio, mangio ciò che il mio corpo mi richiede nelle quantità in cui me ne richiede, faccio cinque pasti al giorno (tre principali e due spuntini), non fumo, non bevo e mi alleno tanto perché in primis mi fa stare bene e perché in secondo luogo (non per importanza) ho un sogno da realizzare e anche nel giro del minor tempo possibile. Voglio fare la ballerina!”

Sono convinta che, se qualcuna tra tutte le persone che in quel periodo si sono permesse di giudicare, ad oggi leggesse questa lettera si stupirebbe delle righe che ho scritto, anzi magari mi direbbe anche che lui o lei mi hanno chiesto come stavo. 

Ma vedete, in questo caso vorrei dirvi (e non penso di parlare solo per noi, caro corpo, ma anche a nome di tante altre persone che hanno più o meno la nostra stessa storia) che esiste una sottile differenza, quasi impercettibile, tra forma e sostanza (tra il “Come stai?” di uso comune, un po’ come convenevole per iniziare un discorso, e il “Come stai?” pieno di interesse, fatto di accoglienza e ascolto). 

A parte questa piccola parentesi di sfogo torno a te, che alla fine hai ceduto e quasi sotto costrizione hai affrontato esami ed analisi che hanno portato il tanto cercato e atteso “Qualcosa che non va” a uscire fuori. 

Siamo celiaci. 

Ecco, da qui in poi è stato tutto un gran casino, perché come sai ti ho strappato le ali da farfalla che avevamo costruito insieme e ho cominciato ad odiarti come non mai. 

Eri silente, non mi avevi mai dato nessun segnale, nessun sintomo, nessun motivo per pensare che davvero qualcosa non andasse, nessun motivo per pensare che quelle voci avessero ragione… 

Ti stavi scavando la fossa da solo e io ti difendevo, perché ero convinta che ormai fossimo diventati una cosa sola, ero convinta di conoscerti come nessun altro, ero convinta che nessun esame avrebbe mai detto il contrario rispetto a quello che credevo.

Mi fidavo, iniziavo a volerti bene, fino a quando mi hai portata a non ti sentirti più. 

Non ho voluto più guardarti neanche allo specchio, ma solo farti male, tanto male, perché in quel momento mi avevi tradito e non meritavi di stare bene, soprattutto non meritavi che io ti curassi e ti aiutassi. 

Infatti non ho seguito il protocollo medico previsto, ho smesso di fare esami e visite di routine, colloqui con dottori e specialisti e non solo! Non ho mai seguito il piano alimentare senza quel veleno che per te si chiama “glutine”, ma ho iniziato ad ingozzarti, a sfogare la rabbia e le emozioni che vivevo sul cibo fino ad entrare in un circolo vizioso che ho chiamato periodo BLU. 

B L U.

Tre lettere che cambiate d’ordine erano le iniziali di una parola che per cinque lunghi anni ho fatto finta di non conoscere.

“BUL-imia”, e nel mio caso aggiungerei nervosa. 

I giorni del periodo BLU sono e saranno sempre indimenticabili: fatti di vergogna, di una sensazione di schifo che ti si cuce addosso come una seconda pelle, di abbuffate, di momenti in cui dimentichi quello che hai ingurgitato nell’arco di mezz’ora, di ore passate in bagno, di digiuni lunghi e interminabili, di chili presi e persi, di cartacce nascoste, di tentativi falliti, di giorni chiusi in casa, di autoinsulti, di bugie e di tanto altro che è difficile da spiegare in poche righe. 

Passano così giorni, mesi, anni e quell’anima che hai intrappolato dentro non si arrende, le prova tutte. 

Mi sono sempre detta che come ci ero entrata da sola in questa situazione, da sola ne sarei anche uscita.

Infatti non ho detto nulla a nessuno, non ho chiesto aiuto né alle persone a me più care, né agli specialisti (che sapevo fin dall’inizio mi avrebbero reso tutto più facile dandomi i mezzi giusti per aiutarmi a uscire dal tunnel). 

Sono andata avanti indossando una maschera con gli altri e cercando nel frattempo delle soluzioni per risolvere il problema.

Provavo a condurre una vita pseudo-normale portando avanti studi, progetti, sogni e ambizioni (perché lo sai che non te l’ho mai data vinta), ma siamo arrivati a un punto in cui ci siamo riguardati in quel riflesso allo specchio ed eravamo entrambi esausti, pieni di botte, massacrati e storditi, tanto da scoppiare in un pianto liberatorio che penso sia stato il più lungo e “bello” della mia vita. 

Ti ho sentito di nuovo ed eravamo sulla stessa barca naufragata, soli per mia scelta, e in quel momento ho capito che dovevo ammettere a me stessa tutto quello che stavo vivendo: dovevo dargli un nome, un colore, una forma e soprattutto dovevo iniziare un percorso per prendermi cura di ME.

Oggi sono seguita da una psicologa e da una nutrizionista, sono in cura da circa tre mesi e, nonostante io sappia che la strada è appena iniziata e soprattutto che è tutta in salita, siamo pronti a percorrerla: per quanto ancora ci odiamo e spesso cadiamo, sono arrivata a dire che meritiamo entrambi di amarci, di ascoltarci, di darci tempo e possibilità perché le cose cambieranno, i giorni blu finiranno e realizzeremo i sogni che meritiamo di vivere senza più farci del male, ma solo sorridendo a questa vita meravigliosa che nel bene o nel male ci ha resi forti, coraggiosi e consapevoli.

Ad Maiora.

Zo

Contenuto a cura di Animenta

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