Sono sempre più in aumento, nella nostra odierna società, le persone che si ammalano di un Disturbo Alimentare (DCA) e sempre più quelle che, per paura di un giudizio in più, provano a tenere nascosto il loro disagio, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana.
Si cerca purtroppo di tendere all’omologazione, per soddisfare delle convenzioni sociali che crediamo sia doveroso rispettare, per sentirci più apprezzati e più amati dalle persone che ci circondano.
È molto facile però che, proprio a partire da questa mentalità, si inneschi il meccanismo del cosiddetto “tutto o nulla”.
Ma di che cosa si tratta nello specifico?
“Tutto o nulla” a tavola e nella quotidianità
Per esempio, dopo una cena con gli amici percepita come “troppo abbondante“, la persona in questione tende a rimurginare e a ricalcolare tutto ciò che mangiato, promettendo a sé stess* che, il giorno seguente, digiunerà per recuperare.
Ma in questo modo non si fa altro che mettere in allerta il nostro corpo che tende a salvaguardarsi, per quanto può, fino ad attivare un ciclo continuo caratterizzato da digiuni e abbuffate, che alimentano solo ulteriore disagio.
Non riuscire a trovare un equilibrio diventa quindi un problema, e si fa ricadere la colpa esclusivamente su se stessi e sullo scarso controllo delle proprie emozioni.
Ma in realtà questo circolo vizioso non è soltanto legato al cibo, in quanto esso rappresenta solo un’appendice di un problema più radicato e più profondo, le cui cause vanno ricercate con il giusto supporto psicologico.
Infatti, lo schema del ‘’tutto o nulla’’, inizia a riversarsi anche nella vita quotidiana: “Se stamattina non sono riuscita a fare nulla, allora non farò nulla tutto il giorno”.
In questo modo, però, non facciamo altro che alimentare il senso di frustrazione, dal quale ci sembra impossibile uscire.
Questo è un pensiero dicotomico, il vedere tutto o bianco o nero, non conoscere mezze misure.
Ciò si riversa anche nelle relazioni sociali: “se non mi ha risposto subito allora si è stancat* di me” oppure “se mi ha risposto in un modo un po’ più freddo del solito vuol dire che merito di rimanere da sol*”.
È una tendenza, quindi, al vedere le cose in maniera catastrofica, come se tutto ciò che accadesse intorno a noi, dipendesse esclusivamente dalle nostre scelte.
Come ci si dovrebbe comportare?
Un piccolo inconveniente durante il percorso non significa essere dei falliti, non significa non valere niente: il nostro valore non si misura da una singola giornata, ma dal nostro essere umani, e questa è una cosa che va al di là del peso corporeo, al di là delle aspettative che gli altri hanno di noi, al di là di tutto ciò che ci fa stare male.
Bisogna cercare di ampliare la nostra prospettiva, a riconoscere i passi avanti che facciamo, anche se piccoli, anche se ci sembra di non averne fatti.
Mettersi allo specchio e domandarsi: “Sono una brava persona?“, rispondendosi con onestà, migliorando laddove si crede di poterlo fare, ma sempre nel rispetto di se stessi e delle proprie emozioni.
Le uniche persone con cui dovremo convivere tutta la vita, le uniche a capirci fino in fondo, con tutte le nostre sfumature e sfaccettature, siamo esclusivamente noi stessi.
La mentalità del “tutto o nulla” tende solo ad auto-distruggerci, a crearci degli schemi mentali che diverranno poi la nostra prigione personale.
Riconoscere un disagio, comunicarlo alle persone di cui ci fidiamo, affidarci a professionisti in grado di aiutarci davvero, è il primo passo per iniziare a stare finalmente bene.
Non siamo persone sbagliate perché commettiamo un errore e non siamo quella singola azione che ci condiziona le giornate, le settimane, o addirittura gli anni.
Siamo esseri pensanti, che provano emozioni, che hanno necessità di esprimerle per sentirsi finalmente libere: libere dalle congetture, dagli schemi, dal controllo ossessivo.
Non bisogna ambire alla perfezione perché essa non esiste. L’unica cosa di cui dovremmo davvero preoccuparci è il riuscire finalmente a volerci bene!
L’articolo è stato scritto da Sophia, volontaria dell’Associazione