La pandemia, uno spartiacque.
Per alcuni ha segnato il passaggio da un prima a un dopo; per altri il dopo è semplicemente tornato come prima.
Se ci ripenso, a volte stento a credere che sia successo per davvero.
Eppure io c’ero. L’ho vissuto. Lo vedevo e lo sentivo, tutti i giorni, finché in uno di quei giorni mi è entrato dentro, arrivando fino all’anima.
Ero già consumata da prima, da tempo per la verità, come un vecchio sacchetto bucherellato in cui continui a mettere pesi, finché non si sfilaccia del tutto; ma il virus è stato come un uragano che trascina con la sua furia tutto ciò che trova lungo la traiettoria, lasciando dietro di sé solo desolazione e macerie.
Avrei voluto appartenere alla categoria di quelli che si riprendono in fretta o che non hanno avuto strascichi, invece sono decisamente una di quelle per cui il dopo non è mai più stato come prima. Perché mentre gli altri rimettevano insieme i pezzi e proseguivano con la loro vita, io affondavo nel marcio più denso.
Prigioniera di vecchi fantasmi e nuovi mostri.
Il lockdown
L’11 marzo 2020 l’OMS dichiara lo stato di pandemia da Covid-19 e tutta l’Italia è in lockdown: gran parte delle attività produttive è bloccata, i cittadini non possono spostarsi in un comune diverso da quello in cui si trovano e in modo limitato in quello in cui vivono, le strutture aperte al pubblico quali musei, cinema, palestre vengono chiuse e le attività ricreative e sociali sono sospese.
La perdita della libertà, la separazione dal proprio ambiente di lavoro o di studio, l’allontanamento sociale, il senso di incertezza sul proprio stato di salute e sul futuro sono solo alcune delle ripercussioni che l’emergenza sanitaria ha causato.
In quel periodo, specialmente durante la prima ondata, i casi di Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) sono aumentati drammaticamente del 30% in tutte le regioni d’Italia.
Il 50% dei nuovi casi diagnosticati riguarda la Bulimia Nervosa, il restante 50% è rappresentato soprattutto da casi di Anoressia Nervosa, seguita dal Disturbo da Alimentazione Incontrollata: il dato più preoccupante è la costante diminuzione dell’età di chi manifesta i disturbi alimentari, che adesso colpiscono anche i bambini sotto i 14 anni.
Domenica, 23 febbraio 2020: non ho nessuna notizia, la sacca della palestra è lì pronta con la roba pulita per l’indomani, mentre un dubbio fastidioso mi risuona nel cervello. “Non sai se domani ci vai, in palestra”. Andavo in palestra ogni pausa pranzo, prima.
“Non sai nemmeno se devi andare in ufficio o se sia già troppo pericoloso”.
Lunedì, 24 febbraio 2020: siamo in ufficio ma l’atmosfera è diversa.
Non lavoriamo come al solito, ma cerchiamo di organizzarci per lo smart working; “Da domani non veniamo più”.
È deciso.
E mentre dosi massicce di amuchina appiccicano mouse e tastiere, iniziano le diffidenze: “Stammi lontano”,” Vai a starnutire in bagno”, “Esco alle 4 così verifico se da me il sistema funziona e poi vi dico.”
Quella sarà l’ultima volta che li vedo.
Da lì iniziano le camminate all’alba, costeggiando i percorsi delle guardie armate e cercando di evitare sulla strada persino i piccioni, per andare a lavorare nell’unico posto dove a suo tempo c’era un PC e una connessione, seppur vecchia e mal funzionante.
Usavamo quello che avevamo. Ognuno per sé e tutti contro tutti.
Pregando ogni mattina di non essere fermata dai controlli, che le gambe mi tenessero per tutti quei 3 chilometri che mi separavano dalla casa dei miei genitori, il mio nuovo ufficio, chilometri che a suo tempo sembravano spaventosamente faticosi, sperando che il sistema da remoto (remotissimo, anzi) si aprisse e mi consentisse di essere collegata, di lavorare. Inutile dire che l’atmosfera era spettrale su quelle strade ancora buie, vuote e tremendamente silenziose.
Inizia anche il periodo delle code ai supermercati, dell’app “Infila”, delle consegne a domicilio che non si trovano.
Non a caso durante le prime settimane del lockdown è quadruplicato il numero di persone che hanno sperimentato la cosiddetta food-insicurity, cioè una forma di insicurezza rispetto alla possibilità di acquistare cibo a sufficienza per sé e per la propria famiglia (Loopstra, 2020. Vulnerability to food insecurity since the COVID-19). Tale paura potrebbe trovare spiegazione nelle lunghe attese davanti ai negozi di alimentari, così come nella scarsa reperibilità di alcune tipologie di alimenti e nella presenza di scaffali completamente vuoti; pertanto le famiglie hanno iniziato a fare scorte alimentari di cibi molto nutrienti e a lunga scadenza, come confermato da una ricerca condotta dalla Coldiretti (Organizzazione degli imprenditori agricoli a livello nazionale ed europeo). Nello specifico, dall’indagine è emerso che gli italiani nel periodo del lockdown hanno acquistato in maniera significativamente maggiore farine e semole (+ 150%), dolci (+13 %), pasta e gnocchi (+ 7%), primi piatti pronti (+24%) e impasti per pizze (+38%).
Non avevamo controllo
Non sapevi quando sarebbe arrivato il tuo turno, ma quando finalmente entravi scattava la corsa all’accaparramento, comprare tutto il possibile per non tornarci presto, per fare scorta. Avevamo tutti paura di restare senza. Come in guerra.
In verità, non siamo mai rimasti senza beni alimentari, ma di certo siamo rimasti senza tante altre cose per moltissimo tempo.
Per una persona affetta da un disturbo alimentare questa situazione può aver costituito un fattore di rischio per il mantenimento ed il peggioramento della sintomatologia: il fatto di avere in casa grandi quantità di cibo, per lo più ad alto contenuto calorico, potrebbe aver facilitato la messa in atto di abbuffate o, al contrario, di comportamenti alimentari ancora più restrittivi e finalizzati al controllo del peso (Brooks et al. 2020. The psychological impact of quarantine and how to reduce it: rapid review of the evidence. The Lancet.).
Per individui con Bulimia o Binge Eating Disorders, ad esempio, essere costretti a stare a casa durante l’intera giornata, per settimane, sempre a contatto con le dispense alimentari piene, potrebbe aver aumentato la tendenza a mangiare grandi quantità di cibo in maniera disordinata e fuori controllo.
C’è chi ce l’ha fatta. C’è anche chi invece quei giorni li sta pagando ancora, a caro prezzo.
Una spiegazione psicologica
Ci sono tre elementi che hanno intrinsecamente caratterizzato quel periodo:
- la dimensione di rinuncia;
- la perdita di controllo;
- la solitudine.
Essi sono i fautori dell’impennata dei disagi mentali che stiamo sperimentando oggi. Oggi che tutto sembra essere tornato alla “normalità “, anche se per molti una normalità non esiste più.
Sembra che la costante diminuzione dell’età di chi viene colpito da disturbi del comportamento alimentare sia strettamente correlata alla dimensione della rinuncia, frutto delle imposizioni restrittive emergenziali.
In emergenza, per definizione, vengono stabilite delle priorità, mentre altre cose passano in secondo piano. Così come le farmacie si sono trasformate in dispense di mascherine e amuchina, mentre i negozi che non vendevano beni di prima necessità sono stati chiusi, allo stesso modo occorreva limitare gli scambi sociali, perché il virus circola attraverso le persone.
Chi è giovane è più sensibile alle limitazioni, perché di fatto esse impongono degli stop alle libertà individuali.
Coloro che, per età o per scelte personali, nella propria vita avevano già un percorso definito, avevano già preso le decisioni principali, si sono visti sicuramente sottratte delle opportunità e del tempo, che non sarà mai restituito, ma hanno subito di meno la rinuncia. Questa è stata invece più viva nelle fasce di popolazione più giovane, tipicamente coloro che non hanno ancora fatto le scelte sui percorsi di studio e/o lavorativi, e la cui vita privata è ancora un evoluzione, di fatto chi sta ancora sperimentando che strada prendere.
Il tempo rubato a questa categoria ha un valore immensamente grande, perché per loro la vita è stata totalmente stravolta, molto di più che per altri
Quanto è alienante seguire le lezioni in DAD o lavorare in smart work full time? Ogni contatto è filtrato da uno schermo. La dimensione dello scambio è totalmente azzerata. La possibilità di percepire la propria affermazione tramite un confronto aperto e la condivisione non ci sono più.
Nel tempo libero non si può più andare a trovare un amico, ma si trascorre tempo sui social o davanti alle serie TV. Non si coltivano più hobby e passioni, perché la pandemia ci ha trasformato in persone che puntano a sopravvivere e non a vivere davvero.
La dimensione di allarme e pericolo è sempre attiva. Non si sa più di chi e cosa fidarsi e l’autorità che dovrebbe rappresentare la parola ultima sulle regole viene costantemente sfidata o bistrattata.
Così, l’insorgere di comportamenti alimentari disfunzionali rappresenta la ricerca di un mezzo per non sentire quel dolore. Il dolore della rinuncia e della fuga di un tempo che non tornerà mai indietro ma è anche un riparo dalla sensazione di essere soli, fisicamente e spiritualmente.
Il cibo è tipicamente usato per cercare difesa rispetto a situazioni che consideriamo avverse e su cui non riteniamo di poter avere il controllo.
La pandemia, la prima ondata specialmente, rappresenta l’evento principe dell’insorgere di queste sensazioni. Da un lato, c’è il costante senso di incertezza legato alle prospettive future e, in questo caso, legato anche allo stato di salute e a cosa è giusto e sbagliato fare al fine di preservarlo.
Queste patologie spesso s’innestano per contrasto, come a dire “Non esistono punti saldi, l’unica leva su cui posso agire è l’alimentazione”.
È stato osservato come il fatto di trascorrere le giornate all’interno della propria abitazione, con un incremento significativo del tempo libero, ha comportato, tra gli altri, un’esposizione costante ad informazioni ed immagini emotivamente attivanti, legate alla diffusione del virus e del suo tasso di mortalità (Koeze e Popper, 2020. The virus changed the way we internet). Questo fenomeno, unito allo stato di emergenza, potrebbe aver causato un aumento di ansia e di preoccupazione legate non solo al contagio, ma anche all’incertezza e alla perdita di controllo connesse alla situazione, temi delicati e sensibili per gli individui affetti da un DCA (Brown et al., 2017. Intolerance of Uncertainty in Eating Disorders: A Systematic Review and Meta-Analysis. European Eating Disorders Review).
Il tema dell’incertezza
Nello specifico, infatti, gli individui affetti da tali disturbi riportano una ridotta tolleranza verso l’incertezza. E, in questo caso, le condotte alimentari disfunzionali potrebbero essere state funzionali alla momentanea riduzione della sensazione di ansia e di stress generata dalla situazione emergenziale (ibidem, 2017).
C’è un altro pezzo del puzzle, ovvero il cibo usato come conforto. Più che mai in situazioni in cui vige la profonda incertezza, siamo portati a ricorrere all’alimentazione come mezzo di sollievo, specialmente se gli altri che ci stanno accanto non riescono a supplire alle mancanze che stiamo sperimentando, magari perché anche loro sono in profonda difficoltà. Chiudersi in una dimensione prevalentemente solitaria rappresenta la fuga da una realtà che si percepisce avversa e immodificabile, ma anche una denuncia dell’impossibilità di essere compresi e confortati.
Infine, e qui bastano poche parole per spiegarlo, la dimensione del controllo o la perdita totale dello stesso, i due estremi, passano attraverso il cibo quando non esistono altre condotte sostitutive per l’affermazione della propria identità.
Problema che si aggrava se si considera l’andamento altalenante della pandemia, che ha visto almeno 5-6 ondate succedersi a periodi più tranquilli, in cui si viveva l’illusione che la paura fosse passata.
Quando si tornava coi piedi per terra, la sfiducia nella possibilità di vedere la luce in fondo al tunnel era oramai implicita nei nostri schemi mentali.
Queste ferite sono diventate cicatrici indelebili per alcuni di noi.
Le conseguenze su di me
Ho avuto un burn out. Mi hanno detto così. Che in italiano sarebbe esaurimento, ma l’inglese restituisce l’immagine simbolica più efficace: essersi bruciato. Come un fiammifero acceso che lentamente si restringe sotto la fiamma, fino alla fine, quando resta solo polvere e cenere.
È stato tutto troppo.
Il tentativo disumano di voler andare sempre oltre, di non lasciare indietro niente, mi ha portato al punto di non farcela più. Ho finito le forze fisiche e mentali. Mi sono letteralmente spenta, e mentre cercavo ancora di premere sull’acceleratore senza rendermene conto, il mio corpo in prima istanza e la mia testa in seconda battuta si sono ribellati.
Oggi convivo con un disturbo cronico alla tiroide e con gli attacchi di panico. Non bevo e non fumo più. Ho riniziato a mangiare in modo equilibrato dopo 15 anni di Anoressia Nervosa e 2 di Binge Eating Disorders. Non riesco a stare in posti chiusi e affollati, non prendo i mezzi pubblici. Non ho mai più rimesso piede in ufficio, perché la sensazione di stare lontana per così tanto tempo dalla mia zona sicura, il mio appartamento, mi paralizza.
Inutile dire che i miei scambi sociali rasentano i livelli di quelli che avevo durante il COVID. Sono in terapia da un anno e mezzo e sebbene ci siano stati dei grossi miglioramenti, c’è ancora parecchia strada da fare.
Non voglio mollare, ma solo adesso capisco davvero quanto male mi sono fatta e quanto sia difficile perdonarsi e andare avanti.
“Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile, sempre.” (Platone)
L’articolo è stato scritto da Federica, volontaria dell’Associazione
Bibliografia
https://emdr.it/wp-content/uploads/2020/06/rivista%20febbraio%20EMDR%202021.pdf#page=6