Ammalarsi non è una scelta – La riflessione di Federica

“Se io riesco a sentirmi sufficiente, tu devi sentirti strabordante 

Ho sentito questa frase in una serie TV: nella scena, la madre sta tentando di consolare sua figlia, una ragazza di 30 anni che è profondamente insoddisfatta della propria situazione, sia professionale che personale.

Le dice: “Tu parti avvantaggiata: non sei cresciuta in una famiglia dove ti hanno detto che non sei bella a sufficienza, snella a sufficienza, solare a sufficienza… che di tuo non sei sufficiente”. 

La figlia infatti, nonostante tutte le incertezze e gli incidenti di percorso nella sua vita, vive in una famiglia che la ama così come è. La madre, nel dirle che è “strabordante”, le fa capire che, a prescindere dai risultati, lei va bene così, anzi va molto più che bene così. Nonostante tutto, nei successi e nei fallimenti, la famiglia della ragazza non sottolinea i suoi errori, non gliene fa una colpa e non esprime un giudizio sul suo valore. Né fisico, né personale, né professionale.

Si tratta di un programma televisivo, che è facilmente idealizzabile: chiunque vorrebbe sentirsi rassicurato da quelle parole, quando si ha l’impressione di non avere in mano niente. 

Di rado ci viene detto apertamente che non siamo abbastanza, però è frequente aspettarsi sempre il massimo da una persona in ogni ambito della sua vita: non sono ammessi fallimenti.

La verità è che tutti avremmo dovuto avere qualcuno che ci spronasse e allo stesso tempo trattasse le “cadute” come normali intoppi del percorso, che volesse il meglio per noi senza allo stesso tempo imporcelo. Che non ci guardasse o reputasse come un proprio successo o fallimento, ma come entità a sé stanti, dotate di autonomia propria e propria consapevolezza. Che non andasse a sventolare in giro “quanto siamo bravi” per poi essere impietosi al primo sbaglio.

Ma è un gioco di equilibri difficilissimo da ottenere, perché tutti siamo persone e come tali, anche con le migliori intenzioni, facciamo errori. Parenti, amici, fidanzati… tutti. 

Il successo lavorativo come validazione personale

Inoltre, se ci pensate bene, è il mondo a chiederci di essere un po’ come soldatini. O meglio, a chiederlo a chi ci cresce. Per essere pronti. Perché da adulti, là fuori, è una giungla. Pensate solo al mercato del lavoro come esempio emblematico di sistema disfunzionale. I posti sono pochi e la competizione è serrata. Qualsiasi cosa tu abbia fatto nel tuo percorso di studi o professionale, non è mai abbastanza perché ci sarà sempre un altro che è più bravo, più sveglio, più in gamba di te.

Anche da assunti, viviamo in situazioni in cui di rado il merito è capito e premiato davvero. In quest’ultimo periodo, le aziende attuano dei tagli sul personale, perché le esigenze create dalla pandemia, seguita da una guerra e dalla crisi energetica, costringono a ripensare le priorità economiche e a correggere le disallocazioni di un periodo eccezionale, come quello che solo in parte ci siamo lasciati alle spalle. 

Lavoro e valore

E chi compone il personale non è una persona che ha fatto errori macroscopici, ma la vittima dei piani di ristrutturazione formulati da chi, molto più in alto, non sa nemmeno chi sei, né cosa fai esattamente. Potrei essere io, voi, chiunque. Perdere il lavoro, inevitabilmente, decreta una perdita di valore. È come se dicessero in faccia: “Non sei abbastanza”

Per questo mondo, capite bene, ci vuole una corazza di titanio che può prendere varie forme. C’è chi (e io avrei tanto voluto essere uno di loro) se ne frega, semplicemente. L’indifferenza può essere un’arma molto potente, sia di difesa che di attacco. 

Poi c’è chi fa il gradasso, il “sono bello solo io” e tutti gli altri fanno schifo. È un altro modo per ostentare una sicurezza che non c’è. 

Ci sono poi quelli che soccombono sotto questo peso e prendono delle vie da cui è difficile tornare: droghe, alcol, tipi di dipendenze varie e tanto altro ancora. 

Infine ci sono quelli come noi. Quelli come noi assorbono tutto, come spugne imbevute. 

Interiorizziamo “il sistema” e, con esso, tutti i suoi squilibri. 

L’assorbimento di un sistema fin da bambini…

Mi viene in mente quando ero una bambina e frequentavo la terza elementare. Ci eravamo appena trasferiti in un’altra zona di Milano ed io, nella nuova scuola, ho fatto fatica a inserirmi nella nuova classe, dove i bambini erano già amici e avevano i loro gruppetti da almeno due anni.

Mi ricordo che la parte più bella della giornata era quando mi venivano a prendere, con la merenda. Era il momento di conforto, in cui ritrovavo il mio rifugio e, almeno fino al giorno dopo, potevo non pensare più ai miei problemi. La mattina presto, era mio padre che mi accompagnava a scuola. Ho ancora ben presente i suoi tentativi di distrarmi, creando diversivi come ad esempio guardare il bidello Bruno che ogni mattina entrava nel nostro bar a mangiare la brioche.

Io però sapevo che, quando il bidello Bruno andava a pagare, di lì a poco la campanella sarebbe suonata e il momento bello sarebbe finito. Da bambina timida ma ligia quale ero, lasciavo la mano di mio papà controvoglia e mi dirigevo verso l’entrata della scuola, con lo stesso entusiasmo di quando ti portano dal dentista a mettere l’apparecchio.

Là dentro, le bambine erano cattivelle e i maschi prepotenti. Un giorno, idearono un nuovo passatempo, una classifica: metti in ordine le femmine dalla più bella alla più brutta. Non ho mai saputo dove mi fossi posizionata. Ma la mia scarsa popolarità nella nuova scuola mi fa pensare tutt’oggi che fossi verso il fondo. 

È così importante? Mia madre direbbe che era solo un gioco. 

Non è vero. Era, anche nel modo più innocente possibile che è proprio dei bambini, una discriminazione, nel senso più intrinseco del termine, cioè una differenziazione tra persone basata su un giudizio, in questo caso estetico. 

Ecco dove e come assorbiamo il sistema. 

Come questo esempio, se ne potrebbero fare molti altri, senza lo scopo di puntare il dito contro qualcuno, ma con la sola idea di fare emergere come queste derive entrino nella nostra testa e ci formino, ci condizionino e, in ultima analisi, plasmino i nostri comportamenti. Questi si modellano di conseguenza con il solo scopo di renderci più appetibili e accettabili agli occhi degli altri. 

Una classifica di questo tipo è invalidante, sia per chi arriva primo che per chi arriva ultimo, e ci fa credere (anche e a maggior ragione a un bambino) di non andare bene così, di dover cambiare.

Scatta un meccanismo di difesa

Una volta radicato, uno schema educativo/comportamentale disfunzionale è molto difficile da modificare. Così io divento grande con la consapevolezza implicita che ci sarà sempre qualcuno pronto a giudicarmi e che il suo giudizio è il metro del mio valore; che devo cambiare per poter piacere e, se invece capita per sbaglio che qualcuno mi apprezza così come sono, è un caso e di sicuro non me lo merito.

Quando queste sensazioni di disagio e insicurezza diventano più importanti, per esempio, nel periodo dell’adolescenza, dove affrontiamo moltissimi cambiamenti che ci destabilizzano, scatta un meccanismo di difesa. Che non è più cercare conforto nella propria famiglia, come potevamo fare da bambini, perché spesso è proprio dalla famiglia che vogliamo affrancarci. 

Quasi in automatico la nostra psiche adotta un modo per difendersi

Non parliamo di indagare, analizzare e poi eventualmente correggere, ma si tratta di uno strumento molto più immediato e semplice, a portata di mano. Vi ricordate quando dicevo che il momento della merenda era il mio conforto? In qualche modo la mia testa aveva già imparato e acquisito un meccanismo legato al cibo e, semplicemente, lo ha rimesso in piedi.

Questo è quello che succede coi Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Arrivano, subentrano a gamba tesa regalando la soluzione più accessibile. Essi prendono la forma della nostra possibile abilitazione quando al cibo associamo il ruolo di “identificatore” perché altre realtà sono state o sono tuttora per noi terribilmente invalidanti.

Così io non mi sento “strabordante”. Il più delle volte mi sento manchevole. Ormai so che sta proprio qui il senso dell’aver trovato altre vie per affermarsi.

DCA: tra soluzione e disturbo

Le prime volte che sentivo usare l’espressione “soluzione alimentare” al posto di Disturbo Alimentare da parte della mia terapeuta, non riuscivo a capire. Tutto era per me, tranne che una soluzione. 

Nel tempo ho capito come la natura egosintonica di queste patologie riesca in effetti a ingannare un po’ tutti, in quanto la persona si sente in sintonia coi sintomi, i quali sono ritenuti coerenti con le proprie dinamiche interiori. L’egosintonia indica uno stato che è in linea con il concetto di se stessi: la persona non vive conflitti interiori a causa del suo modo di comportarsi o di sentire.

Se non ritengo di essere malata, perché curarmi? E perché non ritengo di essere malata? 

Perché i sintomi della malattia si sostituiscono in una certa misura alla nostra personalità di origine, proprio perché essa, strada facendo, si scopre “nuda”, senza ripari. Senza le adeguate sicurezze, senza autostima, alla costante ricerca di un modello che supplisca alle mancanze, modello da idealizzare e seguire. In questo senso i DCA sono anche definiti “soluzioni alimentari”, perché si pongono come apparente rimedio ai profondi stati di insicurezza che attraversiamo e ci salvaguardano dall’uso di altre leve più pericolose ed esterne a noi che potremmo trovare come mezzo di validazione di noi stessi. 

Il carattere disturbante dei DCA

Accanto alla dimensione di soluzione, c’è il carattere “disturbante” dei DCA, nella misura in cui essi diventano la nostra gabbia mentale, portandoci al limite stesso da cui volevamo fuggire.

È estremamente demoralizzante scoprire, alla fine di tutto, che in fondo a un’abbuffata o ad un digiuno, non troviamo noi stessi, ma troviamo il nulla. Eppure, nonostante questa verità svelata che sperimentiamo talvolta ogni giorno, perpetuiamo il comportamento, negando di non stare bene. Negando che sarebbe meglio cambiarlo.

Spesso non ritenendo di dover approfondire la cosa con un terapeuta, o ostacolando la riuscita dell’analisi alzando muri di indifferenza e negando la possibilità a qualsiasi tipo di introspezione. Perché stiamo bene (apparentemente) coi nostri sintomi, che ci hanno protetto così efficacemente nel tempo. Solo che adesso sono così attorcigliati e confusi con la nostra personalità da non riuscire più a distinguerli.

E questo, nel momento in cui si fa quell’introspezione e se ne diventa consapevoli, fa ancora più male, perché ci scopriamo ancora più nudi rispetto al punto da cui eravamo partiti. Questa sensazione rappresenta un incentivo ad abbandonare l’esplorazione, con il ritorno del cibo sul podio delle soluzioni. 

Non è colpa mia se mi sono ammalata

Ecco perché non si può parlare né di scelta né di colpa, quando trattiamo un DCA. 

Spesso si cade nell’errore di convincersi che chi si ammala di DCA se lo sceglie, perché “non vuole mangiare” o perché “vuole mangiare troppo” e non s’impegna a limitarsi. La causa starebbe nella debolezza della nostra volontà. Messaggi di questo genere presuppongono che la persona non impieghi la propria volontà per salvaguardare o mantenere la propria salute, ma che deliberatamente decida di ammalarsi scegliendo proprio quella patologia. 

In realtà, se dovessimo pensare che sia un problema di volontà, dovremmo constatare che siamo in presenza di due volontà: una che non vuole avere la malattia e una che non riesce a liberarsene e che è obbligata ad avere comportamenti alimentari disfunzionali.

Non è colpa mia se mi sono ammalata. Non mi sono scelta il mio male, né me lo sono andata  a cercare. Se avessi potuto, ne avrei fatto a meno. 

È invece merito mio se mi sto curando. 

Non rappresento un fallimento per me stessa o per altri se sul mio percorso ci sono stati più ostacoli. Non sono in difetto con nessuno se non ho soddisfatto le aspettative altrui, ma sarebbe stato ingiusto nei miei confronti se non avessi scelto per me stessa.  

Del resto, a voler essere rigorosi, non è colpa nemmeno di qualcun altro. Ci sono delle dinamiche relazionali e dei contesti psico-attitudinali che determinano una maggior probabilità per questo o quell’individuo di ammalarsi, reagendo per il tramite di un Disturbo Alimentare. Ma non c’è nessuno contro cui puntare il dito. Questa articolazione viene spesso fraintesa, perché è decisamente più semplice individuare un capro espiatorio che accettare le circostanze in modo consapevole e pacatamente rassegnato, ma senza rabbia e frustrazione. 

Poteva andare diversamente? Forse. 

È importante adesso saperlo? No. 

È importante sapere che stiamo prestando la dovuta attenzione e cura rispetto a questo nostro lato, che è più suscettibile e bisognoso.

È importante riconoscere che non è stato fatto niente di sbagliato, che nessuno di noi è sbagliato. 

La malattia ci ha scelto. Nel farlo, ci ha aperto gli occhi e ci ha reso un po’ più consapevoli: abbiamo conosciuto i mostri della nostra mente e, per i più svariati motivi, ci siamo lasciati addomesticare da loro. Ma adesso, anche se siamo passati per l’Inferno e forse siamo solo a metà del guado, sappiamo che l’importanza della guarigione e del volersi prendere cura di noi stessi e della nostra mente.

L’articolo è stato scritto da Federica, volontaria dell’Associazione

Fonti 

https://www.ausl.re.it/2—ammalarsi-di-anoressia-e-di-bulimia-a-una-scelta-della-singola-persona-o-ase-la-cercataa

https://www.psicoterapiascientifica.it/egosintonico/#:~:text=Egosintonico%20(opposto%20di%20egosintonico)%3A,ci%C3%B2%20che%20pu%C3%B2%20essere%20desiderabile.

https://www.cinematographe.it/recensioni-serie/harlem-recensione-serie-tv-amazon/

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