Mi piacevano le lezioni di scienze al liceo. Il professore era l’unico che riusciva a far ridere tutta la classe, inserendo battute e commenti spiritosi tra le nozioni di botanica e quelle di geologia. Il programma era vasto, cosa di cui si lamentava perché in certi casi non si potevano approfondire gli argomenti. Era prevista anche una sorta di “educazione alimentare” con lo studio delle tavole nutrizionali e del metabolismo dei nutrienti nell’organismo, insegnamenti che il professore condiva con esperienze personali e arguzie.
Mia madre, dopo qualche mese da quando cominciai a dedicarmi a casa all’alimentazione macrobiotica e a contare le calorie, andò a scuola e piantò un casino, accusando il professore di avermi infarcito la testa di nozioni inutili e
dannose.
Avevo sedici anni, era il 1987.
Mangiare fino ad allora non era stato un problema: era una cosa normale, così come normale era il mio peso. Cominciavo ad ammalarmi e non lo sapevo. Il professore di scienze, pace all’anima sua, ovviamente non aveva alcuna responsabilità. Di quel periodo mi ricordo l’assillo da parte di mia madre: la fatica sua di sentirsi spodestata dal ruolo di nutrice. La fatica mia di cercare un’indipendenza dalla figura materna. I campi di battaglia del pranzo e della cena.
Nell’arco di pochi mesi passai da quella che si chiama oggi ortoressia a una forma di anoressia restrittiva: cominciavo a escludere dall’alimentazione sempre più cibi, preferendone solo alcuni. Ma i disturbi del comportamento alimentare (mi piace chiamarli con l’acronimo DCA o ED) hanno poco a che fare con il cibo o con il mangiare.
In seguito ho avuto modo di capire che sono solo il sintomo, l’espressione visibile di un
malessere interiore. In quell’anno le ossessioni e le manie legate al cibo si instaurarono stabilmente: una prigione per la mia mente, ma allo stesso tempo uno strumento indispensabile con cui evitavo di misurarmi con disagi relazionali ed esistenziali più profondi.
In quell’anno avevo perso qualche chilo. Mi dava sicurezza vedere il numero sulla bilancia calare. Era un modo per confermarmi che potevo agire su me stesso e sulla realtà che mi circondava, quando invece il mondo intorno a me, e le persone, cominciavano a sbiadire.
Ho un ricordo dell’estate del 1988: agli amici della compagnia del mare, che incontravo tutti gli anni e che mi chiedevano di andare con loro, dissi che non avevo tempo, che dovevo allenarmi. Siete troppo difficili e complicati e mi costa fatica relazionarmi con voi, preferisco stare solo, a calcolare calorie e a fare esercizio fisico. Non glielo dissi esplicitamente, ovvio. Chiusi la porta e cominciai a fare terra bruciata intorno a me.
Ritornato dal mare, cominciarono le abbuffate. Notturne. Mi spaventarono. Non capivo quello che mi stava succedendo, non capivo come fosse possibile perdere così il controllo. Recuperai un po’ di peso, cosa che mi spaventò di più. Verso Natale cominciai a procurarmi il vomito.
Dopo un mese i miei genitori se ne accorsero. A quel tempo non c’era Internet. Tra trafiletti di giornali, articoli di riviste, approfondimenti di Selezione dal Reader’s Digest e lunghe telefonate a parenti, cominciarono a portarmi a Milano, Verona, Genova: psichiatri, ipnoterapeuti, pranoterapeuti. Farmaci e antidepressivi a gogo per un discreto periodo, la cui qualsiasi eventuale efficacia terapeutica veniva vanificata dalla mia gestione impropria.
Mi ritrovai così, nell’estate del 1989, dopo aver superato non so come il quarto anno di liceo, sostenuto da pochissimi chili, con la forza di alzarmi dal letto solo per mangiare. Mia madre, fervente cattolica, era disperata. Mi chiese di andare con lei a Lourdes. Così mi ritrovai a settembre su un aereo ad accompagnarla nel suo
pellegrinaggio, immagino per chiedere che guarissi. Ho dei bei ricordi di quel viaggio, tipo due inservienti che mi gettano nell’acqua gelata in un sotterraneo, o le mie passeggiate solitarie nel parco sopra il santuario.
Non avvenne alcun miracolo se non forse rendermi conto, cosa non da poco, di quanto ero stanco e svuotato. Guardavo mia madre, anche lei stanca, afflitta e spiazzata dalla mia malattia, messa sotto scacco da una guerra che non sapeva fronteggiare. Avevo bisogno di una tregua. Presi la decisione di non vomitare più.
Tornai a scuola. Prima di quel periodo di malattia conclamata, lo studio mi piaceva: rappresentava un modo per darmi conferme sul mio valore e sulla mia autostima. Perse però significato: era diventato faticoso e lo sentivo come un peso. A ottobre presi la varicella e subito dopo l’influenza: persi un mese e mezzo di scuola. Quando tornai in classe, dopo due giorni dissi basta. Mi ritirai e passai i mesi successivi al mare, cominciando a vivere da solo.
L’anno successivo riuscii a terminare il liceo, diplomandomi con il massimo dei voti, ma nel momento di iscrivermi all’università ritornarono i disturbi alimentari. Mi sentivo inadeguato, incapace a prendere iniziative. Mi sentivo sovrappeso e impacciato, anche se il mio peso era nella norma. Mi sentivo spettatore della vita degli altri e di una vita mia che però sentivo di non appartenermi.
Ricominciai con le abbuffate, ma questa volta in maniera più programmata: erano serali e limitate nel tempo, in maniera da poter svolgere un minimo di studio e di vita sociale. Alla fine quel mio accettare lo stato di malattia, quel far finta di niente e la duplicità in cui mi trovavo risultarono il terreno fertile in cui i disturbi
si cronicizzarono per anni.
Furono anni in cui non combinai molto: corsi di studi universitari piantati a metà, un paio di lavori di qualche anno che poi decidevo di lasciare. Soprattutto un appiattimento emotivo vissuto come normale, una vita lasciata scorrere. Le abbuffate ogni sera a placare le ansie accumulate durante la giornata.
Penso che la strada per uscire dai DCA sia un percorso molto personale, un sentiero impervio in cui si può scivolare e cadere e che non si può percorrere da soli. Può essere discontinuo, pieno di incertezze e sorprese e non è scontato riuscire a percorrerlo fino in fondo. Serve una mano solida che ci sostenga e che in certi momenti ci indichi la direzione migliore da seguire. Per come li ho vissuti io, sono disturbi psichiatrici seri e invalidanti, in cui la componente affettiva è malata e necessita di un percorso psicoterapeutico mirato per poter guarire.
Mi è capitato in passato di chiedermi: perché? Perché questa malattia assurda proprio a me? Non penso ci sia un perché. O meglio, le cause esistono e possono essere anche molto precise.
Non credo ci sia un’origine univoca per tutti quelli che incappano in questi disturbi. Esistono certamente alcuni tratti e fattori comuni. Ma conoscere le cause della malattia ha poi così importanza? Forse nella misura in cui possa essere utile, ad un terapeuta, a indirizzare il percorso. Avevo sempre rifiutato di svolgere colloqui con uno psicoterapeuta. In vent’anni forse ne avevo incontrati due, dando buca già al secondo appuntamento. Nello
stato in cui stavo, sinceramente non mi sentivo in grado di affrontare un cambiamento: accettavo il buio che invadeva la mia anima senza rischiare di accenderci una torcia dentro.
In quegli anni di un giorno uguale all’altro, la mia fortuna è stata forse lasciare aperto uno spiraglio all’affettività, intesa come “sentire” e “provare emozioni”. Le mie relazioni sociali a quel tempo erano ridotte all’osso. Per il mio lavoro, nel 2000 entrai in contatto con una casa editrice di critica cinematografica. Mi riavvicinai al cinema, trovandolo in qualche modo una palestra fenomenale di sentimenti ed emozioni. Scoprii di non essere del tutto morto. Restando in tema, mi viene in mente un film carino di qualche anno fa, Warm Bodies, in cui uno
“zombie” recupera la sua umanità, sepolta sotto strati di carne morta, grazie a quello che comincia a provare per una ragazza. Nel 2006 successe che persi la testa per una mia amica che conoscevo da tempo. Fu un disastro. Mi ritrovai a fare cose pressoché fuori da qualsiasi senso logico per seguire un disegno che mi avrebbe potuto permettere di stare con lei. Lasciai il lavoro nella città dove ero nato, mi trasferii a Roma e mi riscrissi
all’università. Contemporaneamente cercai un centro di cura per disturbi del comportamento alimentare ed entrai in lista di attesa. Era impegnativo muovermi proattivamente e prendere decisioni nuove: in generale cominciai ad avere un peggioramento dei sintomi. E l’impatto con la metropoli non fu dei più semplici.
Ho diversi ricordi di quel periodo. Da anni, durante il giorno, o non mangiavo o, se mangiavo, rigettavo il cibo. Mi
riservavo di solito, prima di dormire, una cena a base di “alimenti sicuri”, il cui numero si contava sulle dita di una mano. Da anni non riuscivo a mangiare insieme ad altre persone. Andando a visitare uno dei tanti appartamenti per studenti in cui ho vissuto, incontrai due ragazze. Affittavano una camera per tre mesi: il ragazzo che la
occupava era un pianista e stava facendo una tournée negli States. Parlammo. Era una cosa inusuale per me che ero capace di non proferire una parola anche per giorni. Mi invitarono a restare per cena. Con una certa ansia, accettai. Stare in loro compagnia fu così piacevole che quel cibo, di certo non safe food, acquisì un valore che trascendeva l’aspetto materiale. Salutandole, sentivo il desiderio di conservarlo dentro di me come se, con esso, conservassi
quelle sensazioni piacevoli che avevo vissuto, parlando e cenando insieme.
Era forse una delle prime intuizioni sulla confusione che in me regnava tra piano fisico ed emotivo e su come questi piani si compenetrassero nebulosamente, ma allora non ne ero consapevole. Ad aprile del 2007 entrai al centro: era in una clinica privata convenzionata e il percorso era organizzato in Day Hospital. Seguii il percorso per oltre due anni. Nel 2010 non sentivo più la necessità di abbuffate e avevo smesso di vomitare. Il cibo aveva perso i significati reconditi di cui lo avevo rivestito ed era tornato ad essere nutrimento e convivialità. In questo percorso di cura e negli anni successivi, la psicoterapia è stata la chiave per affrontare le situazioni e gli stati emotivi che prima non ero in grado di sostenere. Insieme alla psicoterapia, hanno avuto un ruolo fondamentale le persone che ho incontrato sulla mia strada e che mi hanno dato, ognuna, qualcosa di sé.
Non è stato però un percorso lineare. Ci sono stati momenti in cui ho rischiato molto. Per me che soffrivo cronicamente di DCA, aver soffocato per anni quello che sentivo e, ad un certo punto, essermi dato la possibilità di provare emozioni, alla cui gestione ero impreparato, mi ha messo in situazioni di pericolo. Ero impulsivo e fuori controllo. Solo nella relazione con i terapeuti e nella relazione con gli altri è stato possibile regolare l’emotività e maturare risposte più funzionali. La mia esperienza con la malattia è stata un po’ più complicata di come l’ho
raccontata. Quasi contemporaneamente alle prime crisi bulimiche, cominciai a fare uso di alcol. Le abbuffate erano qualcosa che non capivo: mi spaventavano e rappresentavano il rifiuto del controllo che cercavo di imporre alla mia vita, l’esplosione di irrazionalità che mi si mostrava come follia. Da qui la necessità di attutire il sentire, cosa che cercavo di fare bevendo. Negli anni la bulimia fu sempre accompagnata da uso di alcol, insieme a occasionali abusi di farmaci, con conseguenze sociali e di salute di una certa gravità. La dipendenza mi ha accompagnato fino al 2015. Ne sono uscito proseguendo il mio percorso e grazie all’aiuto di persone competenti. Ma questa
è un’altra storia.
Come sto oggi.
Considerando che da bambino pensavo che sarei morto prima dei trent’anni e che in diversi periodi della mia vita andavo a dormire sperando di non risvegliarmi il giorno dopo, sono felice di essere vivo. Il tempo non mi basta mai, ho sempre voglia di fare qualcosa.
Sono sposato. Ho un figlio. Ho un lavoro che mi piace.
Mi piace muovermi per la città in bicicletta.
Ho alcuni sogni che forse non realizzerò mai, ma che mi piace coltivare.
Ho certamente diversi rimpianti, ma non mi pesano troppo: forse le cose
dovevano andare così. Forse dovevo passare tutto quello che ho passato per
vivere questi ultimi anni di vita nuova.
Quando mi sveglio, sono grato per il nuovo giorno.
So che potranno esserci difficoltà e anche momenti di sofferenza, ma sarò in grado di affrontarli. Qualche volta mi è capitato di incontrare, per strada, così per caso, qualche persona manifestamente malata di anoressia. Avrei voluto fermarmi a parlare, con una scusa: chiederle come stava. Non ho quasi mai avuto il coraggio. Pensando a come stavo io in quegli anni, se fossi stato fermato da uno sconosciuto che voleva parlare con me e chiedermi come stavo, probabilmente sarei stato intimorito e diffidente.
Forse farei lo stesso errore che, allora, non avrei voluto fosse fatto nei miei confronti: vedere prima la malattia e poi la persona. È strano. Anche se posso ricordarmi bene quanto sia stato male, e difficile per me riuscire a concepire quanto la mia mente fosse imprigionata in quei labirinti senza uscita.
Una volta la mia terapeuta mi chiese: – Ma tu ci credi che dalla malattia mentale si possa guarire?
Ci pensai un attimo. Poi risposi: – Penso di sì. Solo che le cicatrici restano e sono visibili.
Mi guardò e, sorridendo, mi disse: – Sai, adesso esistono le cellule staminali.
Anche le cicatrici possono scomparire.
Daniele, Roma 6 novembre 2021