Anche quest’anno so benissimo cosa vorrei scartare sotto l’albero la mattina di Natale, ma sono nuovamente convinta che non troverò ciò che desidero. Sembra così banale, ma il mio più grande sogno è riscoprire quella leggerezza e spensieratezza, che si dovrebbero provare a tavola, durante i pranzi e le cene in famiglia, e che caratterizzano soprattutto il periodo delle feste. Sono momenti che, di solito, vengono vissuti con serenità e calore: piccoli istanti nei quali si ritrova l’intimità familiare, in cui si condivide un sorriso, ci si raccontano vicissitudini della quotidianità trascorsa, ma soprattutto un’occasione in cui il cibo diventa fonte di piacere, arricchendo quell’atmosfera che solo il Natale riesce a creare.
Perché considero tutto questo come un regalo?
Non mi concedo questa “normalità” da tanto, anzi troppo tempo.
Sono anni che, di fronte ai cappelletti fumanti preparati dalle mani delle mie nonne o ad una fetta di panettone, preferisco i miei piatti quotidiani, che rendono il 25 Dicembre un triste giorno come gli altri.
Ciò che più mi spaventa, è che ho smesso di vivere, queste evidenti privazioni, come tali. Anzi, attivare una forma di rigido controllo, soprattutto davanti ad una tavola imbandita e piena di tentazioni, è diventato fonte di orgoglio e soddisfazione, mentre il mio sguardo si ferma disgustato sui piatti pieni di coloro che mi stanno accanto, non comprendendo che ad essere in torto sono io.
Mentre prima pensavo di aver ragione, ora ho capito che, a determinare il mio atteggiamento a tavola, soprattutto in un momento conviviale come le feste, è sempre stato un ospite tutt’altro che gradito, anzi, il mio più acerrimo nemico: il mio inseparabile Disturbo del Comportamento Alimentare.
In maniera subdola, ma prepotente, si è sentito (e continua a farlo) in diritto di prendere il posto libero a fianco a me, per rovinare, con la sua pedante presenza, una delle giornate che da sempre preferisco. Anche in un’occasione in cui dovrebbe prevalere la volontà di lasciarsi “coccolare” i sensi dal buon cibo e la leggerezza nel concedersi qualche sfizio in più rispetto a tutti gli altri giorni dell’anno, LO sento vicino. Trattiene le mie braccia, impedendo loro di raggiungere un invitante vassoio ricco di pietanze e mi rammenta, iterativamente, cosa potrebbe accadere, davanti allo specchio o sopra alla bilancia, se mi concedessi quell’alimento che tanto vorrei riassaporare.
Mi racconto perchè..
Ho voluto raccontarmi perché so di non essere la sola a vedere, ogni maledetto anno, una festa entusiasmante, trasformarsi in un periodo angosciante e frustrante, a tal punto che l’unico desiderio sia la sua fine, per un ritorno alla monotona e triste routine.
Nella negatività di questa condizione, ho però capito che, nonostante abbia privato me stessa della gioia del Natale, fino ad ora, posso rimediare, cercando di fare delle feste che verranno dei momenti che potrò vivere come una rivincita ed una vittoria, cacciando dalla tavola imbandita quell’ospite indesiderato, che è riuscito a spegnere la luce di questa festa, solo sedendo accanto a me.
Ricorda: NON É MAI TROPPO TARDI!
Quali sono i miei propositi, a partire da questo Natale?
Sicuramente questa malattia ed il suo decorso non danno certezze e, per questa ragione, non si possono fare programmi definiti di guarigione, ma posso usare questa festività come la mia ri-partenza.
Con quale spirito vorrei vivere la mia vita da questo momento?
Ho trovato nella parola “NATALE” la mia risposta, scandita tra le lettere che la compongono.
Voglio vivere questo momento come Nascita: ora mi ritengo ospite di un corpo morto, una mente consumata ed un cuore logorato. Per questo motivo voglio scoprire, dopo tanto tempo, cosa significa sentirsi pieni di voglia di vivere. A volte si ha la percezione che, con la malattia, si stiano controllando in maniera piuttosto metodica le proprio giornate e le proprie condotte comportamentali, ma, in realtà, non è così.
Questa forma di auto-privazione (nel mio caso), è stata una “maschera” della morte, che stava venendo a prendermi, senza che volessi ammetterlo.
Voglio anche lavorare sulla mia Autostima, mai abbastanza elevata, a tal punto da rendere lo specchio solo il riflesso di una costante insoddisfazione. Il tormento costante di non essere abbastanza è purtroppo ciò che lo ha sempre logorato: di fronte ad una struttura fisica che ho giornalmente sentito nemica e ad un prototipo di bellezza “ideale” che non sarei mai riuscita a raggiungere, sono arrivata a privarmi della vita. Nonostante tale punizione corporale, ho continuato a non sentirmi “bella” o non rientrante nei parametri auspicati.
In quel momento ho capito che nella mia mente si era innescato un meccanismo di disprezzo verso me stessa, che non sarebbe scomparso nemmeno smettendo di mangiare. Non riuscivo a spiegarmi questa dinamica incoerente, ma poi ho dato ad essa un nome: dispercezione corporea. Ho compreso che ciò che i miei occhi mi hanno portato a vedere per 9 lunghi anni, era un copia distorta di me, una falsa me e un’idealizzazione materiale di questa brutta malattia.
Voglio iniziare la mia Trasformazione: ho bisogno di trovare in questo tempo, il punto di partenza per ritrovarmi e per tornare a vivere. Purtroppo ancora ho tanti limiti che non danno alla mia volontà, la forza di fare lo scatto iniziale, ma la difficoltà contingente non preclude un necessario fallimento.
La parola d’ordine deve essere “SPERANZA”, non “SCONFITTA”. Ci saranno molte giornate no, che condurranno a procrastinare, a fare un passo indietro o a rifiutarsi di farsi aiutare. Questi devono essere visti come momenti necessari e come ostacoli da dover superare, sapendo che al traguardo ci sarà un premio impareggiabile: una nuova vita.
Voglio riscoprire quella forma d’Amore senza la quale nessun’altra può essere vissuta: quella verso se stessi. Questa malattia ha come principale manifestazione un tale disprezzo verso il proprio essere, che si smette di agire per amor proprio anzi, pensando di ottenere una forma fisica maggiormente gradevole dal punto di vista estetico, non si fa altro che vessare il proprio corpo, palesando un odio ingiustificato verso lo stesso.
Ritengo questo termine il più importante tra quelli scelti. Ho compreso che, non amandomi, non è possibile nemmeno creare legami con gli altri o accogliere l’amore che viene donato dall’esterno. Tale realtà è piuttosto inquietante perché, un DCA, non conduce solo all’alienazione della e dalla propria persona, ma anche da coloro che ci circondano, con conseguente isolamento e impossibilità di scoprire la ricchezza che si può ricevere essendo parte della dimensione sociale.
Voglio ritrovare la Libertà che, ad oggi, non sento mia. Anzi, è più adeguato parlare di una prigionia, che limita costantemente il proprio vissuto quotidiano. Non poter mangiare quel cibo che in uno specifico momento mi va; non voler mangiare le stesse portate previste per gli alti; non poter vivere l’essenza di una festa come il Natale, intorno ad una ricca tavola, sono delle limitazioni che non mi permettono di vivere la bellezza di essere liberi.
La sensazione è quella di essere una farfalla, intrappolata irreversibilmente in un bozzolo, anche se la volontà di sentire l’aria tra le ali è così profonda che non voglio arrendermi all’idea di limitare la mia esistenza ad un piccolo spazio claustrofobico, precludendomi così, l’opportunità di scoprire cosa voglia dire VOLARE, senza barriere fisiche o mentali.
Infine, voglio che il mio ultimo pacchetto, sotto l’albero, mi renda padrona di un nuovo Equilibrio, quello che la mia mente ha perso, trascinando nel baratro anche il corpo. Il reale superamento della condizione di malattia è tornare ad essere stabili, a smettere di cedere alle imposizioni di una mente così distorta da condurre il corpo a vacillare costantemente, rendendo complessa ed irraggiungibile una stabilizzazione globali.
Mi auguro di trascorrere non UN Natale, come molti di quelli precedenti, ma il Natale:
un Natale fatto di piccole soddisfazioni,
di gusti riscoperti,
di limitazioni rimosse,
di doni d’amore,
di FELICITÀ.
Fai che questo sia anche il TUO Natale!