Quanti anni hai?
Quando mi fanno questa domanda, ci sono sempre quei 5-10 secondi in cui tentenno, perché mi verrebbe da dire “diciotto” quando in realtà ne ho venticinque.
Ma perché proprio diciotto? Perché la sera della mia festa di compleanno è l’ultimo ricordo che ho della vera me. Da quel momento in poi… Il vuoto.
Come l’ho riempito? Con il controllo, quello rigido, quello che pensi ti faccia stare più tranquilla ma che poi si rivela l’arma più efficace per l’auto-sabotaggio.
2014
Da quella sera sono passati tanti anni e se mi fermo per guardarmi indietro mi vengono i brividi: non so quantificare il numero di occasioni perse, le bugie dette, le volte in cui avrei voluto addormentarmi e non svegliarmi più.
Mi sono sentita “di troppo” quando occupavo così poco spazio che neanche le fotocellule delle porte dei negozi avvertivano la mia presenza.
Mi sono sentita “sbagliata” quando di sbagliato c’erano solo i miei pensieri disfunzionali e autodistruttivi. Mi sono sentita “senza speranza” quando tutti i miei castelli si sono sgretolati di fronte a me.
A diciotto anni, quando tutti iniziano veramente a vivere, a costruirsi un futuro, a fare progetti, io me ne stavo sul divano di casa e fissavo il vuoto, perché non c’era nulla che mi facesse provare un’emozione, piacevole o spiacevole che fosse. Niente. Mi sentivo un’ameba, mi figuravo come una larva con braccia e gambe immobili, avvolte in un involucro simile a una gabbia.
E allora che senso aveva nutrirmi? Come potevo meritare del cibo se non ero in grado di fare niente?
Ancora non sapevo che un dolore immenso si stava facendo spazio nel mio petto. Avevo perso una cara persona, quella che per me era stata un punto di riferimento, un porto sicuro, una certezza. L’avevo persa nel senso che era cambiata. “Da così a così”, come nella pubblicità delle Gocciole.
Mi sono sentita messa da parte e presa in giro, come se avessi un peccato da espiare e meritassi quindi di trovarmi in quella situazione.
Mamma, ti devo parlare…
L’estate della maturità, la stessa dei diciotto anni, è stata un incubo.
Oltre a tutti i problemi che mi stavo portando dietro, c’era in ballo la scelta dell’università. Non avrei sopportato di passare altri 3 anni come i 5 trascorsi alle superiori, con una pressione indescrivibile addosso, con un senso del dovere patologico, con la necessità di dimostrare agli altri di essere in gamba, di essere competente.
Come potevo non sentirmi persa?
Mamma, ti devo parlare.
Non sono più io, non riesco più a fare quello che facevo prima. Ho la mente annebbiata, ho paura di mangiare.
Mamma, io ho paura di mangiare.
La dieta, sì ha funzionato, ma a me non basta mai. Salire su quella bilancia e vedere quel numero che si fa sempre più piccolo è l’unica gioia che provo in questi mesi devastanti.
Ti prego, aiutami.
Un lungo autunno
Un disturbo alimentare – non sarà la prima volta che ne senti parlare – è molto di più di un disturbo legato alla sfera del cibo. Colpisce l’anima, la manda in necrosi, la fa ammalare e pian piano spegne la fiammella della vita.
L’autunno del primo anno di università iniziò il mio percorso di cura. Un nutrizionista mi diede una dieta per aumentare di peso, solo che io non avevo gli strumenti adatti per seguirla.
Ricordo che a pranzo in università dovevo portarmi la quinoa… Questa sconosciuta! Proprio perché in casa mia non era mai stata utilizzata, ne cuocevo meno rispetto a quanto indicato nel piano alimentare, ma faceva talmente tanto volume che riuscivo ad ingannare mamma.
Chiaramente le cose non funzionarono e mamma mi portò in un centro per DCA. Primo incontro: domande, test.
Tornai a casa con un foglio e una diagnosi: anoressia nervosa.
Non riuscivo a leggere quelle due parole. Quante volte avevo scherzato dicendo “Ma come fanno le persone malate di anoressia a non mangiare? Io non ce la farei mai”.
Non so se conoscete il detto “Non sputare in cielo che in faccia ti torna”. Ecco, casca proprio a pennello.
Regredire anziché progredire
Il percorso non era iniziato come sperato.
Con la psicologa mi trovavo anche bene, era la prima volta per me. Non avevo mai parlato di cose personali con una sconosciuta, ma provavo sollievo nel farlo. Mi sembrava che le cose stessero andando bene.
Ma, con il senno di poi, posso dire che non ero pronta a guarire.
Odiavo la nutrizionista. Non mi capiva, non mi veniva incontro.
Scriveva la dieta, inseriva qui, aggiustava lì, ma non si accorgeva che non riuscivo nemmeno ad aggiungere una tazza di tisana all’interno della mia giornata.
Persi peso, tanto. E questo mi costrinse a valutare, tra le lacrime e le urla disperate, un altro percorso di cura. Un percorso a 360 gradi, che mi strappasse dalla quotidianità per ridarmi la vita.
Accettai di essere ricoverata in una struttura che si trovava a più di 160 km da casa, lontano dalla mia famiglia, pensando che così si sarebbero liberati di me, che avrei smesso di dare fastidio.
Punto e virgola
È l’immagine che c’è sul diario che scrivevo mentre ero in struttura. Un quadernino che non ho mai più riaperto perché non ho il coraggio di rileggere la sofferenza che ho provato in quei due mesi.
Parlo di sofferenza, ma in realtà mi hanno salvato la vita lì dentro. Ero al confine tra la vita e la morte e loro mi hanno trascinata da questa parte dal confine, per fortuna.
Ho un ricordo piuttosto positivo dei primi mesi dopo il ricovero, il peso saliva, ma a me non importava tanto, perché c’erano altre cose nella mia vita: l’università, i miei nuovi amici, la mia famiglia, i viaggi, la voglia di crescere e di diventare indipendente.
Ci sono stati momenti in cui mi sono sentita davvero libera, in cui la malattia era solo un brutto ricordo che mi lasciavo alle spalle.
Ero in grado di tenere a bada i sintomi, riuscivo a non ascoltare la “me cattiva” perché sapevo dove mi avrebbe portato, mentre invece io volevo portare avanti con fierezza la mia vittoria.
Ma Lei è sempre in agguato
In realtà non mi sono mai ripresa del tutto.
Gli ups and downs erano e sono tuttora all’ordine del giorno. Ho cambiato più volte percorsi di cura, terapeuti, tecniche…
Ma Lei è sempre lì pronta a presentarsi, a farmi sentire bene ingannandomi, invitandomi a nozze con l’intento di pugnalarmi poi alle spalle.
Il Covid ha reso le cose ancora più complesse.
Ricordo febbraio 2020, quando la mia vita stava prendendo una piega diversa, ero ottimista. Con il cibo le cose miglioravano, ero riuscita a superare un sacco di ostacoli. Avevo appena cambiato lavoro, entrando nell’azienda dei miei sogni che mi avrebbe permesso di fare spazio, concretamente e idealmente.
E invece mi sono ritrovata nuovamente chiusa in camera, con i miei demoni che sono venuti a trovarmi ad uno ad uno e non se ne sono più andati.
C’è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce
Il 2021 si è concluso con questa frase che ho scritto in un brief per un progetto che stavo seguendo a lavoro.
Allo stesso modo è iniziato il 2022, con questa frase che ho ritrovato nel libro che stavo leggendo.
In questi anni ho imparato a conoscermi, anche se non ancora ad apprezzarmi.
Ho capito come funziono, anche se non ho ancora il coraggio di frenarmi quando dovrei.
Ho capito che la vita è un continuo work in progress, che non si è mai “finiti” né “arrivati”. Che possiamo sempre imparare, cambiare, prendere decisioni, trasformarci. Che possiamo cadere, ma che l’importante è non mollare mai e provare a rialzarsi. Che chiedere aiuto è fondamentale, ma deve partire da te.
Non si tratta di forza di volontà, ma di voglia di vivere.
Nnamose a pijà er gelato!
L’articolo è stato scritto da Federica, volontaria dell’associazione, che ha raccontato la sua storia