La prima volta che ho sentito la parola “anoressia” andavo alle elementari, ma non ho sentito questa parola tra i banchi di scuola, bensì da mia madre. Come moltissimi bambini, anche io detestavo mangiare le verdure, perciò lei mi obbligava spesso. La verdura che ritrovavo con più frequenza nel piatto era l’insalata: la peggiore in assoluto, la odiavo. Avevo quindi escogitato delle strategie per non mangiarla.
Ho provato confusione…
Fino a quando mia madre non mi ha beccata e mi ha spiegato cosa fosse l’anoressia nel modo peggiore che si possa immaginare. Mi ha elencato una lista di sintomi e conseguenze negative e orribili. Per una bambina di nove o dieci anni sembrava una minaccia. Avevo paura, e mi sono ripromessa di non farlo mai più. Ma la spiegazione che mia madre mi ha dato dimostra che nemmeno lei sapesse realmente di cosa stesse parlando, perché mi descriveva l’anoressia tramite i sintomi e i comportamenti tipici di chi soffre di bulimia, e la cosa ha creato non poca confusione in me.
Alle superiori
La seconda volta che ho sentito parlare di disturbi alimentari ero già più grande: alle superiori ho capito cosa fossero davvero, conoscendoli sia sulla mia stessa pelle che su quella di alcune delle mie più care amiche. Vedevo i cambiamenti in loro, nel corpo e nei comportamenti, vedevo quanto stavano male e faticavo ad aiutarle nel modo corretto. Perché senza neanche rendermene conto ho iniziato a star male anche io. Sono sempre stata definita “schizzinosa” in ambito alimentare, sin da quando ero piccolissima, ma durante gli anni del liceo avevo cominciato a mangiare solo pochi alimenti, in quantità minime e solo se con altre persone.
Mi accorgevo di non stare bene
Mi accorgevo che il mio animo non stava bene e il mio corpo ne risentiva molto: avevo sempre dolori lancinanti alla pancia ed ero debolissima. Ma “non sono così grave, loro stanno peggio, loro sono state in ospedale, non lamentarti”. Questo era ciò che mi ripetevo in testa tutti i giorni non appena entravo in classe, non appena suonava la campanella della ricreazione o tutte le volte che mi fermavo a pranzare assieme alle mie amiche. Peggioravo di giorno in giorno e sottovalutavo il mio problema, perchè oltre a quello c’erano le mie ossessioni, connesse al cibo e non, lo stress e la pressione scolastica, la mia famiglia che crollava. Chiaramente non potevo stare meglio da sola, e continuavo a mettere al secondo posto me stessa.
Le persone intorno a me…
La mia famiglia notava i miei cambiamenti, ma reagiva con urla, ramanzine, obblighi e minacce. Tutte modalità che non funzionano, se si vuole aiutare una persona a stare meglio.
Ho quindi iniziato ad andare da una psicologa e lei è stata il colpo di grazia. Io avevo bisogno di dare un nome a ciò che provavo e lei non mi ha mai permesso di farlo. Parlava del mio DCA con la paura di chiamarlo con il suo nome e di fronte al mio disgusto per il cibo e a quello per il corpo ci girava intorno, con frasi banali come “prova a mangiare questo, assaggia quello”, “sei bellissima, devi aprirti e tentare”. Non ero capita, men che meno aiutata.
Volevo guarire
Poi le superiori sono finite tra quarantene e didattica a distanza, i miei genitori hanno divorziato, e ho iniziato a vedere meno le mie amiche.
Ho iniziato l’Università e mi sono rimboccata le maniche. Volevo guarire, volevo cambiare vita e uscire da tutti quegli anni di malessere.
Mi chiamo Federica e dal 2018 ad oggi ho avuto molti alti e bassi, ma sono i passi avanti che ho fatto a spingermi a migliorarmi ogni giorno. Ogni piccola conquista, ogni piccola cosa può essere un motore di cambiamento nella vita di ciascuno di noi. Non mi sento ancora nella posizione di definirmi completamente guarita dal mio DCA, ma ho le persone giuste accanto a me, ho la voglia di stare meglio e so che posso farcela, nonostante le ricadute e gli intoppi che sono parte del percorso. Un percorso duro senza dubbio, che mi mette e mi metterà in difficoltà, che mi farà uscire dalla comfort zone della malattia, ma che voglio affrontare con tutta la mia anima.
Perché ho visto cosa il mio DCA mi ha tolto e ora, finalmente, so cosa significa essere affamati di vita.
L’articolo è stato scritto da Federica, volontaria dell’Associazione, che ha raccontato la sua storia