Ci sono cose della vita che pensi non potranno mai accaderti. Le vedi in TV, le leggi sui giornali, ne senti parlare, ma sono così distanti che non ti sembrano davvero reali. Poi un giorno apri gli occhi e ti accorgi che, invece, sono vere. E che stanno succedendo proprio a te. Così è stato per me con l’anoressia nervosa.
Potrei raccontare la mia storia nei minimi dettagli, ma credo che tutto possa essere riassunto in una singola parola che accompagna i miei ricordi fin dalla mia più tenera età, fin da che ho memoria: controllo.
Il controllo come inizio di tutto
Non saprei definire la fissa per il controllo. Credo la si porti sempre in sé e spesso basta un nulla a scatenarla. S’insinua in te silenziosa, attacca lentamente, tortuosa, distorce ogni parte del tuo essere. Ma è furba e terribilmente manipolatrice, perché si fa passare per tua amica ma non rinuncia per questo a tradirti. In tutto questo, la sofferenza non è che un effetto secondario.
Quando fin dalla primissima infanzia sei una bambina “controllante”, non ti rendi conto del problema perché è una caratteristica insita in te da sempre. E non fa male, anzi: disciplina la vita e dà sicurezza, fa sentire come se tutto dipendesse da te, fa sentire forte, in gamba. Ero la bambina che quando andava all’asilo attraversava la strada sulle strisce pedonali saltando le linee bianche e mettendo i piedi solo sulle parti “nere” dell’asfalto. Sono sempre stata la bambina che giocava con le costruzioni della “Lego” e separava sempre i mattoncini per forma e per colore. Ero la bambina che quando usciva fuori faceva sempre i soliti percorsi per strada. Ero la ragazzina che ogni sera scriveva una scheda delle cose da fare per il giorno dopo, con tanto di orari, e poi la rispettava. sono sempre stata la ragazzina che si vestiva sempre in un certo ordine, faceva i compiti con un certo ordine, rimetteva le cose con un certo ordine, si allenava sempre in un certo modo, stava meticolosamente attenta agli orari. Niente sfuggiva dalla mia sfera di personale controllo. Come se tutto nella mia vita dipendesse da me.
Un’infanzia felice prima dell’anoressia nervosa
Però io ero veramente serena, nel mio vivere. Sono sempre stata una bambina magra, a prova che la malattia colpisce chiunque e che non nasce solo dal desiderio di dimagrire per somigliare alle modelle.
Per me tutto questo era assolutamente normale. La mia intera infanzia ed i primi anni della mia adolescenza sono proprio un bel ricordo per me. Andavo molto bene a scuola, facevo sport (karate) e anche lì ottenevo buonissime prestazioni. Avevo alcuni amici, e mi piaceva fare un sacco di cose, insomma, avevo parecchi hobby con cui impiegavo il mio tempo libero. Non solo: avevo la fortuna di avere dei genitori veramente in gamba e un fratello minore che è, ed è sempre stato, la grande bellezza della mia vita. Il controllo c’è sempre stato nella mia storia, in maniera continua e costante… ma non mi impediva comunque di godermela a pieno. Era un controllo che veniva a patti con la mia quotidianità, la modulava e la integrava.
L’inizio della terapia e la diagnosi di anoressia nervosa
La prima volta che mi sono presentata davanti a quella psichiatra che mi avrebbe fornito un’etichetta diagnostica, ricordo che lei chiese ai miei genitori: “Ma non vi siete accorti che vostra figlia cercava di controllare, non solo l’alimentazione, ma ogni singolo aspetto della sua vita?”.
E la risposta più eloquente, ancor prima delle parole, fu l’espressione di mio padre che replicò: “Ma lei è sempre stata così. Da sempre. Non è mica cambiato nulla nel suo modo di fare, nel corso degli anni… di che cosa avremmo dovuto accorgerci? Che nostra figlia era… se stessa?”. Ma questo succedeva quando avevo più o meno 17 anni. Quando ormai l’anoressia mi aveva presa per mano e camminava al mio fianco da circa due o tre anni. E no, i miei genitori per tutto quel tempo non si erano accorti che restringevo l’alimentazione. Ma non perché fossero ciechi, sciocchi o distratti, ma perché io ero una ragazzina furbescamente stupida.
Non conoscevo l’anoressia se non per nome, e certo non avrei mai pensato che sarei arrivata a quello. Io ero solo una quattordicenne alla spasmodica ricerca del controllo in ogni ambito della propria vita, che si era ad un certo punto accorta che anche l’alimentazione, in fondo, era una cosa che si poteva controllare. Non solo: controllare e schematizzare. E farlo restringendo era un modo per dimostrare a me stessa che potevo tenere sotto controllo anche un istinto biologico come il bisogno di nutrirsi. Se avessi controllato anche l’alimentazione, sarei arrivata a controllare ogni singolo aspetto della mia vita: cosa mai avrebbe potuto farmi sentire più forte di così?
I sintomi dell’anoressia nervosa
Perciò, ho iniziato a restringere. E l’ho fatto in una maniera graduale e in modo che i miei genitori non se ne accorgessero. Non avevo fretta di restringere, perché non mi importava di dimagrire, ma solo controllare. Anzi, la magrezza sempre maggiore peggiorava le mie performance sportive e questo mi infastidiva molto, ma consideravo comunque quel dimagrimento un “effetto collaterale”, un sacrificio necessario che dovevo tollerare perché dall’altra parte avevo il controllo. Mi sentivo onnipotente.
La malattia negli occhi degli altri
La gradualità della mia restrizione ha modificato il mio corpo lentamente. Ecco perché i miei genitori, che mi tenevano sott’occhio quotidianamente, lì per lì non se ne sono accorti: non ci si accorge mai che le persone cambiano quando le si hanno accanto tutti i giorni, e le modificazioni avvengono con lentezza pachidermica. Ce ne si accorge solo quando una persona non la si vede per un pezzo. O quando si confrontano le fotografie vecchie con il presente.
È stato lì che il filo si è spezzato, i miei giochi scoperti, il mio universo disintegrato. I miei genitori, non appena se ne resero conto, cercarono di correre ai ripari. Mi trascinarono dal medico, poi da una dietista, poi da una psichiatra. Mi dissero che mi volevano aiutare a stare bene e che, con quello che stavo facendo, mi stavo distruggendo la vita. Avevano ragione, ovviamente, ma sul momento io la pensavo in maniera opposta: pensavo solo che, con ciò che erano messi a fare “per il mio bene”, avevano iniziato a distruggere quella che in quel momento consideravo la mia vera vita.
La psichiatra nel suo ufficio, dopo quasi quattro ore di colloquio, aveva pronunciato quel suo verdetto senza possibilità d’appello: “Anoressia Nervosa Sottotipo 1”. E date le mie condizioni psicofisiche, c’era una sola cosa che bisognava fare, un’unica possibile soluzione. I miei genitori erano assolutamente d’accordo. Ma io l’avevo capito in quel momento, nello studio della psichiatra: quella che lei proponeva non era la sola soluzione alla fine di tutto. Tutto era già finito. Chi mi aveva cacciata dal mio personale paradiso?
Il ricovero per anoressia nervosa
Così, quando avevo circa 17 anni, sono stata ricoverata in una clinica specializzata per il trattamento dei DCA. Ed è stato il primo di una serie di ricoveri (cinque in tutto, nel corso degli anni), più o meno consenzienti. In quel caso ero ancora completamente oppositiva, quindi è stato un ricovero purtroppo totalmente inutile. Poi ci sono stati gli altri quattro, in cui sono stata invece più collaborante. Ricoveri in cui ho avuto a che fare con ogni genere di persone, in cui mi sono state affibbiate sempre le stesse etichette diagnostiche. Ogni volta che uscivo da quelle cliniche le cose sembravano andare un po’ meglio, mi sentivo più forte, più motivata, più decisa a farla finita una volta per tutte con l’anoressia. Ma ci sono ricaduta, ho resistito un po’ e poi ho ricominciato a restringere, in un circolo vizioso che sembrava veramente non avere mai fine. E mi sentivo stanca, tanto stanca. Stanca di vivere solo per morire. Stanca di morire solo per vivere. Avrei voluto imparare a vivere solo per vivere.
La presa di coscienza
E poi col tempo mi sono accorta che mi ero fregata da sola. Che l’anoressia non mi avrebbe mai portato tutto quello che prometteva. Anzi, al contrario, avrei dovuto sopportare una vita fatta solo di compromessi, dove non ci sarebbe stata davvero gran differenza tra vivere e morire. Una vita a metà. E mi sono resa conto che l’anoressia aveva promesso di farmi sentire diversa, speciale, forte, e soprattutto in controllo, ma che in realtà la mia infernale compagna mi aveva fatta prigioniera, rubando anni, energie, pensieri, amici, hobby, studio, lavoro. Aveva rubato me stessa, aveva cancellato quello che ero e quello che avrei potuto essere. Aveva portato via la parte migliore di me, le cose che amavo. Perciò mi era rimasta solo una grande stanchezza, una solitudine senza confini, giorni fatti di ossessione per il controllo e di vuoto. Niente. Non mi era rimasto più niente.
Il cambiamento di rotta
Forse è stata questa la molla che mi ha spinto a reagire. Non so bene neppure com’è iniziato. Sentivo che ogni giorno un pezzo di me se ne andava e io non sapevo più che fare. La cosa più terribile, mi sono accorta in quel momento, non è morire. L’inferno vero è restare, restare senza esserci mai. Restare senza sapere più dove andare. Non volevo vivere in quel modo. In fin dei conti, avevo sempre il desiderio di fare qualcosa di speciale.
E allora ho capito che la cosa più speciale che potessi fare era provare ad essere “normale”. E a superare, in questa normalità, tutte le sfide quotidiane. Perché è questa la vera forza. Non quella illusoria che l’anoressia sembrava darmi. L’estate stava arrivando, e volevo godermi anch’io un giorno di sole sentendomi libera. Perché volevo ancora sperare. Perché volevo ritornare.
E allora mi sono messa davvero d’impegno con la psicoterapia: mi sono trovata una nuova ennesima psicologa ed ho iniziato a lavorare seriamente su me stessa. Anche se era dannatamente doloroso, difficile, e tante volte avrei voluto mandare tutto a quel paese e rifugiarmi di nuovo nel mondo patologico, ma nonostante tutto noto e quindi a suo modo rassicurante, dell’anoressia.
Oltre alla psicoterapeuta, anche la dietista
Allo stesso tempo ho preso il “piano alimentare” che la dietista mi aveva prescritto e mi sono messa a seguirlo sul serio, senza sgarrare. Mi sono accorta che quella poteva essere la mia nuova scheda alimentare, sana: non dovevo rinunciare al controllo, ma semplicemente demandarlo ad una professionista, creando così uno schema che mi lasciasse la libertà di non pensarci, perché già modulato da qualcuno di veramente competente. Che è poi ciò che sto facendo tuttora.
Con gli anni mi sono accorta che una sorta di via d’uscita la si può trovare. Traendo ispirazione da quello che mi circondava, ho cercato di trasformare tutto in motivazione. Mi sono accorta che non avrei mai potuto fare quello che mi ero programmata nella vita, se non fossi stata capace di tenere sì, sotto controllo… ma stavolta, l’anoressia stessa! E sono andata avanti. Sto andando avanti tuttora.
L’anoressia nervosa è una prigione…
L’anoressia nervosa è una prigione che non ha odore, che non ha sbarre, che non ha mura: una prigione per la mente. Certo, è una cosa da cui sono passata, e niente potrà cancellarla. Ma la porterò nel doppio fondo dell’anima per sempre. Ma la mia vita è ancora nelle mie mani, perciò ogni giorno sta a me decidere cosa farne.
Ho avuto miriadi di cadute e ricadute, ma mi sono sempre rialzata. E ho deciso di provare a non sprecare queste opportunità. Sono in remissione dall’anoressia nervosa da circa otto anni e voglio che continui così. È dura e difficile, ma col tempo (e con l’aiuto della psicoterapia) gli angoli si smussano ed ogni anno che passa, voglio poter aggiungere al mio conto di “assenza di restrizione alimentare” un anno in più.
Vivere senza essere soverchiate dal DCA è possibile, e quando lo si fa, si acquisisce veramente una vita di qualità, una vita che vale la pena di essere vissuta. Credo che stia ad ognun* di noi scegliere di farlo e come farlo. Io ho fatto la mia scelta. Spero che sia anche quella di ogni persona che ancora in questo momento si sta dibattendo nella spirale discendente di un DCA.
L’articolo è stato scritto da V., che ha raccontato la sua storia