Si può aiutare chi soffre di DCA? Sì (ma in modo adeguato)
Spesso si fa fatica ad approcciarsi ed ad aiutare una persona che soffre di un Disturbo del Comportamento Alimentare (DCA). C’è chi ha il timore di non usare le parole giuste e quindi magari preferisce mostrarsi indifferente per paura; o ancora c’è chi manca di sensibilità, a tal punto da ferire chi già vive una condizione di sofferenza persistente.
È essenziale partire da questo presupposto: c’è molto altro e il tutto va ben oltre il corpo, anche se sicuramente non è semplice prendere coscienza di tale realtà.
Spesso è più immediato e meno impegnativo focalizzarsi su ciò che è più evidente, ossia fermarsi a valutare una condizione esteriore che non corrisponde ai canoni della “normalità”. Che poi, cos’è veramente la normalità?
Non è preferibile apprezzare l’unicità e l’irripetibilità di ognuno?
Aprire un varco
Soffrire di un DCA spesso crea un muro relazionale con il mondo esterno. Questo porta inevitabilmente a incomprensione e scarsa empatia. La tentazione è quindi quella di prendere le distanze. Ma è proprio qui che, anche se è impegnativo, gli interlocutori potrebbero aprire un varco: senza colpevolizzarsi reciprocamente, si potrebbe cercare di tendere la mano verso l’altro ponendosi con gentilezza e con la volontà di capire.
Magari usando espressioni come: “Nel vederti così, mi sento preoccupato/a…” piuttosto che “Stai malissimo. Perché non ti prendi cura di te? Perchè mi stai facendo questo?”.
Espressioni inadeguate
Spesso chi vive giornalmente con questo disturbo vive un contrasto con se stesso. Avere di fronte persone che non sembrano comprendere la profondità di tale sofferenza risulta essere un ulteriore ostacolo che si interpone tra il diretto interessato e la sua libertà.
Quello che emerge, anche dalle parole di persone care, è che spesso si approcciano con espressioni piuttosto inadeguate come: “Stai male perché non mangi!”, quando forse potrebbe essere utile modificare il proprio punto di vista e giungere alla consapevolezza che la situazione è: “Non mangi perché stai male”. Nonostante sia un semplice gioco di parole, la combinazione dà un senso del tutto nuovo alla frase.
La forza delle fragilità (incomprese)
Riprendendo questo concetto, chi soffre di un Disturbo del Comportamento Alimentare ha un solo desiderio, che non sembra essere compreso dal prossimo: cercare di essere visti non solo per l’evidente sofferenza del corpo, ma per quella invisibile e logorante dell’anima. È impegnativo scavare a fondo all’interno di una persona. Per quale motivo? È come farsene un po’ carico comprendendo la sua complessità interiore e condividendo determinate inquietudini. E questo fa paura. La “scorciatoia” relazionale consiste nel limitarsi a considerare la persona “malata”, spesso prendendo le distanze.
Ma c’è una forza dentro queste persone. La forza sta nel tirare fuori le proprie fragilità e nell’affrontarle. E questo, molte volte, non viene visto.
Il diritto di essere rispettati
Chi sta vivendo una condizione di questo tipo non pretende che vi sia piena consapevolezza da parte delle persone vicine. Sente semplicemente il forte desiderio di essere rispettata.
Apprezza chi sa trattarla con delicatezza, come se si stesse manipolando un vaso di porcellana. Apprezza la sensibilità, la cura del dettaglio, il saper fare un passo indietro.
Lì dove magari quell’opinione non è richiesta; lì dove non so bene cosa fare o cosa dire, è meglio fare un passo indietro.
Una delle parole che spesso si sentono uscire dalla bocca degli stessi familiari è “capriccio”. Forse è più facile chiamarlo così, ma sicuramente non è risolutivo.
Ciò che deve essere compreso è che spesso si traggono conclusioni affrettate, solo perché non ci si pone nella condizione di comprendere. Potrebbe essere più costruttivo cercare di rispondere alla domanda “Perché?”. E non è detto che si trovi una risposta. Anzi. Ma il semplice atto di chiederselo dà la possibilità di provare ad empatizzare con l’altro, al di là di ogni giudizio o pregiudizio.
La libertà negata
Abbiamo ormai capito che nel momento in cui ci si rapporta con una persona con un Disturbo del Comportamento Alimentare si possono avere vari approcci.
A volte capita che i familiari, mossi da preoccupazione e sofferenza condivisa, pensino che l’insistenza e la costrizione siano le soluzioni più immediate. Tale atteggiamento non è da colpevolizzare: si tratta di genitori che vedono una parte del loro cuore smettere di battere ed è quindi comprensibile la loro volontà di porre rimedio nella maniera più celere possibile. Il punto è che spesso questo non consente di scegliere l’approccio più adeguato alle condizioni del proprio figlio/a.
Ci si ritrova ad essere prigionieri delle mura domestiche tra forme di ossessivo controllo. Ci si sente osservati in diversi momenti della giornata, in particolare durante la condivisione dei pasti quotidiani.
“Come si sente mio/a figlio/a in questi momenti?“. Questa potrebbe essere una domanda utile per cercare di capire se i nostri comportamenti sono funzionali.
A volte l’eccessiva attenzione o l’eccessivo controllo durante il momento del pasto possono portare ad una condizione stressante.
Spesso, chi soffre di un Disturbo del Comportamento Alimentare sente di aver perso la libertà e si sente vincolato in ogni suo vissuto ed azione quotidiana.
In tale condizione, essa, nutre un solo desiderio nel proprio cuore: trovare comprensione ed empatia.
La mancanza di informazione da un lato e la carenza di sensibilità dall’altro portano a condividere espressioni come “Quanto sei magra” o “Mangia di meno” mentre, per mostrare la propria disponibilità nel porgere una mano di aiuto, basterebbe chiedere un sincero “Come stai?”.
Cosa si può fare concretamente
La realtà è che nessuno, in questa relazione, ricopre una posizione semplice o agisce correttamente. Non c’è un manuale di istruzioni.
Non c’è una cura universale, che va bene per tutti. Questo riflette l’unicità di ognuno di noi.
Allo stesso tempo, si possono trovare una serie di linee guida che possono essere un po’ le nostre coordinate per poter fornire al meglio il nostro aiuto.
Pazienza
La prima parola preziosa è tempo: darsi tempo e dare tempo.
Aiutare una persona che soffre di un DCA è sfidante. Soprattutto all’inizio, quando la persona si trova in un momento di inconsapevolezza rispetto alla sua situazione, non si è pronti a chiedere o ad accogliere il supporto.
Da qui emerge un forte senso di impotenza. Di fronte ad esso non dobbiamo restare inermi, passivi. Si possono provare rabbia, frustrazione, delusione, ma si deve comunque fare qualcosa.
Si può stare accanto al diretto interessato fino a quando sentirà di aver raggiunto quel grado di matura consapevolezza, che lo condurrà a invertire la rotta e a riprendere in mano le redini della propria vita.
Con delicatezza, si può cercare di capire ciò di cui ha bisogno, come possiamo essere realmente di supporto.
Potrà accadere che ci risponderà o ci tratterà male. La sfida sta qui: nel restare, nonostante tutto. Perché vi assicuro che poi quella persona si ricorderà di chi c’era.
Esserci
Essere davvero presenti per quella persona può significare tanto. Molto più dei vari consigli o di tutte quelle frasi fatte. Quando non si sa cosa dire, a volte va bene (se non meglio) non dire nulla.
Una delle sensazioni che vengono vissute quotidianamente da chi soffre di disturbi alimentari è infatti quella di sentirsi incompresi e soli. Sapere quindi di avere qualcuno che cammina al proprio fianco può essere un motivo valido per proseguire il proprio percorso, un percorso lungo e tortuoso. In questo modo si può continuare a fare i propri passi anche quando ci si sente più stanchi.
Riuscire a creare legami emotivamente sicuri e rassicuranti ha un valore inestimabile ed essenziale per qualunque individuo, come ci insegna John Bowlby con il concetto di “secure base” tratto dalla Teoria dell’Attacamento.
Informazione e sensibilizzazione
La conoscenza, in qualunque ambito la si consideri, è la chiave per avere accesso ad una visione autentica del mondo e di ciò che esso può offrire.
I Disturbi del Comportamento Alimentare sono in crescita, ma, nonostante ciò, ancora vi è una scarsa informazione rispetto alla tematica e non si registra un interesse particolarmente elevato.
Urge muoversi verso la sensibilizzazione sull’argomento, in modo che si abbia l’opportunità e ci si dia la possibilità di “guardare oltre” quella che, di fatto, è solo la manifestazione esterna della malattia.
Probabilmente chi vive questa difficile condizione potrebbe sentirsi meno giudicato se chi lo circonda fosse dotato di un adeguato bagaglio informativo.
La volontà di informarsi sulla tematica dei DCA deriva dalla consapevolezza che conoscenza significa comprensione, e che comprensione significa facilitare la cura.
Sospensione del giudizio
Una delle tendenze sviluppate da coloro che soffrono di un disturbo alimentare è quella di provare sentimenti disfunzionali verso sé stessi, in particolare vergogna e rabbia. Questo conduce al disprezzo verso la propria persona, a costanti critiche e ad auto-recriminazioni che non fanno altro che scavare ancora più in profondità nelle ferite già aperte.
È importante quindi lasciare il giudizio fuori dalla porta ed evitare di fare della critica l’unico mezzo di comunicazione. Questo non significa che, nel momento in cui lo si ritenga necessario, non si debba prendere una posizione, ma si può provare a farlo utilizzando un approccio adeguato.
Piuttosto che giudicare in maniera superficiale una persona che si trova in evidente difficoltà, si può provare a sostenerla e a rispettarla al meglio delle proprie possibilità, utilizzando parole colme di affetto.
Cura delle parole
I commenti relativi alla forma fisica, al cibo o ai disturbi alimentari stessi, anche se espressi in modo “innocente” e non malevolo, possono rappresentare un colpo doloroso per chi soffre di queste malattie. In questo caso la parola da tenere sempre a mente è sensibilità, quella necessaria a selezionare accuratamente le parole utilizzate e, perché no, a prediligere espressioni che possano far sentire chi le ascolta al sicuro.
Non servono discorsi pomposi, ma semplicemente espressioni sincere ed autentiche, che cullino chi sta vivendo una condizione di vulnerabilità e disorientamento.
Spesso basta rivolgersi alla persona interessata riconoscendo la propria posizione: “So che non posso comprendere ciò che stai affrontando, ma io ci sono”. Sembra una frase scontata, ma è una frase che nella sua semplicità cela una componente di sincerità e di vicinanza: da un lato si ha l’umiltà di ammettere che la condizione vissuta dall’altro è così complessa da non potersi immedesimare, dall’altro si palesa anche la volontà di fare tutto ciò che è in proprio potere per essere presente, nel momento del bisogno.
Al contempo ci si può anche mostrare disponibili, chiedendo semplicemente “C’è qualcosa che posso fare per te?”, in modo che l’altra persona percepisca di non essere più sola con la sua malattia, ma di avere un “punto fermo” con cui condividere le proprie paure, sofferenze e vulnerabilità.
È impagabile il valore che si può trarre da tre parole: “Ti voglio bene”. Un’espressione data spesso per scontata ma con un potere comunicativo enorme.
Alcuni esempi
Tra l’altro se non sappiamo bene cosa dire o come comportarci e vogliamo interagire con quella persona, piuttosto che parlare di lei, possiamo parlare di noi. Facciamo un esempio: piuttosto che usare frasi come “Ma mangi? Non mi far preoccupare, eh!” potremmo dire: “Sai in questi giorni ho notato che stai mangiando un po’ di meno e sinceramente mi sono un po’ preoccupato. Come stai? C’è qualcosa di cui vuoi parlare?”.
Come dicevo questo è un esempio, non esiste la frase giusta al momento giusto. Può comunque essere utile parlare di come ci sentiamo noi rispetto all’altro, piuttosto che utilizzare frasi inadeguate o che possono essere percepite come dei giudizi.
Fiducia
Spesso all’inizio della malattia si è inconsapevoli della condizione psicofisica a cui si è abbandonati, ma nel momento in cui si giunge alla consapevolezza della stessa, ci si rende conto che è necessario intraprendere un percorso di terapia.
Bisogna sradicare quella convinzione diffusa secondo cui la terapia comporti una guarigione immediata. La terapia è necessaria, è fondamentale. Allo stesso tempo l’idea che basti qualche seduta per risolvere il tutto è un’aspettativa decisamente surreale.
Si tratta di un percorso che ha alti e bassi e momenti di stallo. E può accadere che la persona interessata non riesca ad avere fiducia nel fatto di poter cambiare le cose.
Per questo, dall’esterno, è importante imparare ad avere e ad alimentare la fiducia nella persona interessata, soprattutto nei momenti in cui si lascia abbattere da piccoli ostacoli che ai suoi occhi appaiono come irreparabili “fallimenti”.
Quando sentirà di voler mollare la presa, allora sarà necessario sapere di avere qualcuno al proprio fianco che abbia speranza per e con lei.
Quando lo si ritiene necessario, si possono e si devono mettere in campo tutti i mezzi che si hanno a disposizione per ridare fiducia a colui che la sta perdendo. Ad esempio, gli si può raccontare e mostrare le storie di chi ce l’ha fatta perché si possa innescare in lui la consapevolezza che, come l’altro ha superato tale difficoltà, può farcela anche lui; gli si possono ricordare i traguardi raggiunti e tutto il percorso che è stato fatto.
Si può fare in modo che la persona si ricordi chi è davvero e tutto quello che ha affrontato affinché ritrovi la forza e la fiducia in se stessa.
Cura e amor proprio
Se si siamo vicini ad una persona che sta affrontando un DCA, è bene assicurarsi in primis che ci si stia prendendo cura anche della propria salute, per non rischiare di esserne influenzati in maniera gravosa.
Non posso aiutare l’altro se non mi prendo cura di me stesso o se non aiuto me stesso.
A volte questo può voler dire definire dei confini. Un atto che non è sinonimo di egoismo, ma piuttosto di autotutela. Se ci si rende conto che la portata della malattia potrebbe essere eccessiva da reggere, è preferibile allentare la presa e smettere di farsi carico della sofferenza e dell’inquietudine del diretto interessato.
Questo non vuol dire abbandonare la persona, che comunque (almeno questo è ciò che ci si augura) è seguita da dei professionisti. Significa prendersi cura di sé per poter davvero fare la differenza per l’altro.
Vorrei concludere questo articolo lasciandovi questa bellissima citazione:
“Troppo spesso sottovalutiamo il potere di un tocco, di un sorriso, di una parola gentile, di un orecchio in ascolto, di un complimento onesto o del più piccolo atto di cura, tutte cose che hanno il potenziale di cambiare la vita di chi ci sta intorno” (Leo Buscaglia)