Di disturbi alimentari bisogna parlare sempre di più e ovunque.
Parlare dà voce al dolore, lo rende visibile e condivisibile.
Farlo richiede attenzione: non si tratta solo di raccontare una malattia, ma di avvicinarsi a storie, emozioni e vissuti unici.
Non siamo una diagnosi. Siamo una storia.
In questo articolo condividiamo 10 cose da sapere prima di parlare di DCA.
1. Evita semplificazioni: i disturbi alimentari sono problemi complessi
I disturbi alimentari non hanno una sola causa né un percorso di guarigione uguale per tutti.
Le loro radici possono essere psicologiche, biologiche, relazionali, sociali e culturali, e per questo richiedono percorsi di cura interdisciplinari e personalizzati.
Frasi come “Mangia di più”, “Mangia di meno”, “Serve solo più autocontrollo” o “Basta voler guarire” non solo banalizzano la complessità del problema, ma rischiano di ferire e colpevolizzare.
Accogli la complessità, anche quando è difficile da comprendere.
2. Rappresenta la realtà, non lo stereotipo
I disturbi alimentari colpiscono individui di ogni età, razza, etnia, identità di genere, orientamento sessuale e contesto socioeconomico.
Eppure, l’immaginario dominante continua a mostrarli quasi esclusivamente come malattie di ragazze giovani, bianche e magre.
È raro vedere rappresentata una persona con un corpo grasso che vive un disturbo restrittivo come l’anoressia, così come è raro includere uomini, persone trans o non binarie, e adulti.
Informarsi sulle esperienze delle comunità marginalizzate, direttamente dalla voce di chi ne fa parte, aiuta a costruire un racconto più completo e inclusivo.
La rappresentazione può salvare la vita: riconoscersi in una storia o in un’immagine può essere il passo che convince a chiedere aiuto.
Le immagini e le parole che diffondiamo creano la realtà in cui viviamo. Scegli narrazioni che includano tutte le possibilità, non solo lo stereotipo più conosciuto.
3. I disturbi alimentari non riguardano (solo) il cibo, il peso e il corpo
Ridurre un disturbo alimentare a ciò che si vede – il corpo, il peso, il rapporto con il cibo – significa ignorare gran parte della sofferenza che comporta.
Queste condizioni hanno radici profonde e non sempre provocano cambiamenti fisici evidenti.
Non tutti i disturbi alimentari sono visibili: molte persone vivono sintomi e disagi profondi senza che il loro corpo cambi in modo percepibile.
Raccontare solo ciò che appare rafforza stereotipi e può impedire a chi non si riconosce in quell’immagine di chiedere aiuto.
Ricorda: gran parte della sofferenza è invisibile.
4. Evita contenuti trigger
Quando si parla di “trigger” si fa riferimento a una serie di parole, commenti o azioni che vanno ad attivare pensieri disfunzionali in una persona affetta da DCA. Questo avviene poiché certe parole toccano temi sensibili per la persona malata.
Foto “prima e dopo”, “What I Eat in a Day”, conteggi calorici, diete o routine di esercizio fisico possono sembrare innocui o motivanti, ma per chi vive un disturbo alimentare possono diventare un innesco di sofferenza e ostacolare il percorso di recupero.
Prima di pubblicare o condividere, chiediti sempre quale impatto potrebbe avere.
5. Usa un linguaggio neutro e rispettoso
Le parole influenzano il modo in cui percepiamo la realtà. Termini come pulito, sporco, sano e cattivo riferiti al cibo o al corpo portano con sé giudizi impliciti che possono rinforzare pensieri e comportamenti dannosi.
Scegli espressioni descrittive e non giudicanti, che non associno valore morale all’alimentazione o all’aspetto fisico.
Un linguaggio neutro non significa freddo: significa parlare con attenzione, evitando di ferire o alimentare stereotipi.
Le parole possono diventare parte della cura, se scelte con consapevolezza.
6. Non romanticizzare il disturbo
Un disturbo alimentare non è uno stile di vita né qualcosa da ammirare. Raccontarlo in modo da renderlo desiderabile o “ispirazionale” può spingere chi è più vulnerabile a imitarne i comportamenti, sottovalutandone la gravità.
La realtà è che si tratta di una malattia complessa, che comporta sofferenza fisica, emotiva e relazionale.
Parlane in modo onesto e responsabile, senza renderlo attraente.
7. Evita la retorica della battaglia
Espressioni come “ha lottato contro il disturbo” o “ha sconfitto il DCA” possono sembrare motivanti, ma rischiano di creare una narrazione escludente e colpevolizzante, dove chi “combatte di più” è visto come più meritevole di guarire.
I disturbi alimentari non si “vincono” con la forza: si comprendono, si attraversano, si ascoltano. La guarigione non è una battaglia, ma un processo complesso e personale, con tempi e percorsi diversi per ognuno.
Sostituisci le metafore di guerra con parole che parlino di percorsi, ascolto, cura e accoglienza, riconoscendo la dignità di ogni storia.
8. Nessuno è la sua diagnosi
Etichettare qualcuno come “anoressicə” o “bulimicə” riduce la sua complessità a un solo aspetto. Un disturbo alimentare fa parte del vissuto, ma non definisce l’identità.
Usare un linguaggio “person first” (persona che vive un disturbo alimentare) aiuta a ricordare che dietro ci sono esperienze, relazioni, passioni e sogni.
9. Soffrire di un disturbo alimentare non rende esperti
Avere vissuto un disturbo alimentare può aiutare a comprenderne alcuni aspetti, ma non significa avere le competenze per dare consigli clinici o indicazioni di cura.
Ogni percorso è unico: ciò che funziona per una persona può essere dannoso per un’altra.
La condivisione dell’esperienza è preziosa, ma non sostituisce il parere di un* professionista.
10. Si può guarire dai disturbi alimentari
I disturbi alimentari non sono condanne a vita e non si superano solo con la forza di volontà. Con il giusto supporto, cure adeguate e un contesto che accoglie, la guarigione è possibile.
Il percorso non è lineare, ma ogni passo è parte del processo. Parlare di guarigione con realismo e speranza aiuta a combattere lo stigma e a incoraggiare la richiesta di aiuto.
La guarigione è possibile: non è una gara, e non dipende dal “volerlo abbastanza”.
Riflettiamo prima di pubblicare
Ogni contenuto ha un impatto. Prima di scrivere, parlare o pubblicare qualcosa, chiediti:
Chi sto cercando di raggiungere? Chi potrebbe leggerlo o ascoltarlo? Che effetto potrebbe avere?
Il modo in cui parliamo di disturbi alimentari può aprire uno spazio di ascolto e diventare un punto di partenza per chiedere aiuto — oppure trasformarsi in un ostacolo in più.
L’articolo è stato scritto da Francesca, volontaria dell’Associazione