Parola e immagine nei disturbi alimentari – terza parte

La metafora dello specchio nei disturbi alimentari

L’oggetto materiale che più si fa portatore della dialettica “pieno” – “vuoto”, “esterno” – “interno”, “io” – “Altro” è lo specchio. Sin da bambini vediamo la nostra immagine riflessa ma Laura Dalla Ragione, ricordando gli studi condotti da Lewis sull’autoriconoscimento nel bambino, mostra come in realtà questi manchi di autocoscienza di immagine perché non riconosce essa come stabile nel tempo. “L’immagine del sé non è altro che quella che ci viene rimandata dagli altri, come posto in evidenza dal sociologo Cooley”.

L’immagine mostra un sé in cui non ci si riconosce ma che estranea. Tuttavia lo specchio diventa la metafora della relazione con il mondo esterno e, soprattutto nei disturbi alimentari, la persona tende a proiettare le emozioni e sentimenti interiori al di fuori e ad utilizzare il corpo come veicolo per mandare i messaggi che non è riuscita a comunicare. Il corpo troppo magro, emaciato o in sovrappeso, martoriato o deformato dalla persona affetta da disturbi del comportamento alimentare, diviene l’incudine, la gabbia fatta di sbarre, attraverso la quale proteggersi dal mondo esterno con il quale si ha difficoltà a comunicare. Lo specchio diviene l’intermediario che si frappone tra un interno e il vero esterno che è considerato il mondo al di fuori dello specchio. Ingenuamente si tende a pensare che chi soffre di tali disagi abbia come nemico il corpo e l’immagine riflessa nello specchio, in realtà questo è solo il mezzo con il quale si affronta il vero bersaglio della persona sofferente: l’Altro. Nelle testimonianze delle ragazze affette da disordini del comportamento alimentare ricoverate a Palazzo Francisci e riportate dalla Psichiatra Laura Dalla Ragione, emerge un profondo sentimento di rabbia provato dalle pazienti proprio nei confronti del mondo esterno, una realtà che ha preteso e pretende di controllare i loro desideri e bisogni. Lo specchio, usato come intermediario per comunicare con il “fuori”, lo ritroviamo nel celebre cartone Disney “Biancaneve e i sette nani”, (1937).

La strega cattiva, utilizza la superficie riflettente, non per vedere sé stessa ma per aprire un diretto confronto con la figliastra. Il confronto con gli altri, il paragonarsi ai corpi altrui, tanto da arrivare ad annullare il proprio, fino a trasformarlo in una maschera “senza autore”, non più governato dall’interno, è una dinamica tipica dei DCA. Le forme corporee vengono completamente svuotate, si anestetizzano a tal punto emozioni e sensazioni da trasformare le persone in “manichini” inespressivi e privi di volto che ricordano i quadri di De Chirico. Nella terapia di un disturbo alimentare è quindi di fondamentale importanza una rieducazione alle emozioni, alla comunicazione e alla relazione con l’altro e l’aiuto a costruire un’identità personale. Nelle cliniche di cura le ragazze, non subiscono l’esclusione dallo spazio pubblico come nei tempi passati, nei quali la follia, proprio perché considerata deviante, veniva spoliticizzata.

Le pazienti vengono immesse all’interno di una comunità insieme ad altre persone con cui possono interagire. Vivendo un’esperienza nuova di relazione con l’Altro e soprattutto avendo la possibilità di costruirsi una propria identità, attraverso la partecipazione ad attività come la danza, la musica e il teatro, le ragazze riescono a “passare finalmente attraverso lo specchio” e, con un’interiorità finalmente matura, ad aprirsi al mondo esterno. “L’autismo” e il solipsismo tipico di una persona che si chiude all’interno del proprio corpo per proteggersi e allontanare gli Altri, viene superato grazie alla riscoperta dell’incontro con un’alterità che non spaventa e non fa male più.

Il live action “Alice attraverso lo specchio” (2016), esprime molto bene questo tipo di intervento clinico: la protagonista, precedentemente apatica e chiusa in una profonda solitudine interiore, passando “attraverso” lo specchio, affronta le intemperie del mondo che sta oltre a questo e scopre la propria forza e possibilità di essere se stessa. Essere un corpo, abitarlo e non semplicemente averlo, questo è ciò che esprime l’essenza di noi esseri umani. Abitiamo un corpo perché siamo corpo: fuori e dentro non devono essere separati come i due cavalli di platonica memoria ma considerati un Tutto indistinto in cui soltanto si può essere l’identico e il diverso insieme

Conclusione

Può e deve esistere in un tempo come il nostro, un’educazione all’immagine e all’alterità. Viviamo a contatto con milioni di immagini che spesso sembrano dominarci e impossessarsi del nostro sguardo ma possiamo imparare a farne buon uso. L’incontro con il “fuori” e con “l’alterità” portata dalle rappresentazioni visive, non deve per forza avere un epilogo drammatico come quello di Narciso. Nei Disturbi alimentari, si cerca la perfezione di un corpo che proprio perché voluto come tale, arriva a trasformarsi da animato in “inanimato”. Il corpo diventa oggetto o cosa, tutto ciò perché la persona non è riuscita a comunicare con l’altro.

Nel romanzo “I Quaderni di Serafino Gubbio” di Pirandello, il protagonista, che avrebbe dovuto apprendere a non mostrare emozioni e giudizi come la cinepresa che utilizzava per filmare le scene cinematografiche durante la sua attività di regista, raggiunge questa perfezione assoluta diventando muto. È significativo il fatto che nella mitologia greca, Narciso, emblema del corpo e   dell’immagine, sia accompagnato dalla ninfa Eco, a cui corrisponde la metafora della parola. Nei disturbi del comportamento alimentare un’immagine, quella corporea, viene utilizzata come linguaggio e parola. Un’educazione al corretto utilizzo delle rappresentazioni visive e al modo in cui vadano espressi messaggi, visto che viviamo l’epoca dell’informazione diffusa, sembra doverosa. Si deve prestare attenzione a far circolare immagini che non mortifichino, offendano la diversità ma anzi promuovano l’incontro, l’accettazione, la relazione e la comunicazione autentica. Vi è una differenza etimologica importante tra trasmettere e comunicare e in maniera erronea riteniamo che i mass media siano strumenti di comunicazione, in quanto questa prevedrebbe una reciprocità reclamata dalla radice latina cum. Insegnare che le forme possono mutare e che non sono fisse, in analogia con le immagini che scorriamo velocemente con un dito sulla schermata dei nostri smart phone e dispositivi, potrà salvare dall’ oggettivazione del corpo umano a cui stiamo assistendo oggi.

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Articolo a cura di Martina Migliarini. Appassionata di filosofia , psicologia , arte , teatro . Praticante di calisthenics , amante delle passeggiate in montagna. I seguenti articoli derivano da un paper di studio redatto e scritto da Martina Migliarini. Link per accedere alla Bibliografia.

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