Cara “C.”,
Sono “E.”; l’idea di scrivere qui è più tua che mia.
Pensavi avessi già scritto e ho visto la luce nei tuoi occhi all’idea che avessi usato uno spazio per te così importante e un piccolo accenno di delusione quando ti ho detto che no, non ero io ad aver pubblicato la mia storia.
Non ho pubblicato la mia storia perché mi sembrava di invadere uno spazio intimo e delicato che, seppur in parte sentissi mio, non era vissuto dal punto giusto.
Ma forse così non è.
Già, perché a volte ci si vede o da una parte o dall’altra.
Ma sai che c’è? Che forse davvero non c’è parte o ruolo che tengano…
Se davvero ci spogliamo di quello che sono le istituzioni, le divise, i ruoli siamo tutti un po’ “C.” e tutte un po’ “E.”
E allora ha senso dire che non per forza essere dalla parte di chi si prende cura significa non sentire, non provare nulla, non vedere oltre al dolore.
Ti sento, sento la tua fatica e la tua disperazione.
Io ti vedo, vedo quello che sei, e vedo quello che potresti essere una volta alleggerita dalle tue pesanti fatiche.
E allora penso che sì, io sono anche un po’ “C.”, e spero che tu possa ogni tanto essere un po’ “E.” per poter vedere quello che vedo io, per poterti vedere come ti vedo io: un’anima bella incastrata in un momento difficile.
Forza piccola “C.” metticela tutta!
L’articolo è stato scritto da Erika, che ha raccontato la sua storia