“Ha senso nella mia testa.”
Questa è la frase che mi sono trovata a ripetere spesso durante le sedute di terapia. Perché era vero, le restrizioni avevano un senso per me, mi isolavano da emozioni che erano troppo intense da tollerare. Ma se è vero che il sonno della ragione genera mostri, lo fa anche l’insonnia, almeno per me.
Il passaggio dalle superiori all’università è stato complesso. La gioia iniziale di vivere in un posto lontano dalla casa dei miei ha lasciato subito spazio alla vertigine di sentirsi un puntino che brancola nel buio in un contesto nel quale tutti, apparentemente, avevano già idee molto chiare. Non ho cominciato la mia carriera accademica nel migliore dei modi, collezionando nel primo semestre tre bocciature. Mi sentivo già indietro ancora prima di iniziare perché miravo alla perfezione e si parte sempre in svantaggio se l’obiettivo è irraggiungibile.
L’ho sempre cercata, la perfezione, sin da bambina. Come quella volta in cui al concorso di pianoforte mi sono messa a piangere perché il mio punteggio finale era di 98 su 100. Per sopperire a queste sensazioni, mi sono creata un vortice di tabelle e di schemi. Rigidi. Inviolabili. Sacri. E in quelle fredde celle di excel ci finiva tutto, dal tempo che impiegavo ad andare all’università alla durata della pausa pranzo.
Ci sono finite anche le calorie dei cibi che ingerivo e il numero dei passi che facevo. Prendere sotto controllo la mia vita mi sembrava l’atto più razionale che potessi fare. “Segna quante pagine devi schematizzare.” mi dicevo. “Organizza i pasti.” “Appunta quanto hai mangiato oggi.” Il tempo per lo studio aumentava a discapito del tempo per “tutto il resto”. Quel “tutto il resto” nel quale c’erano gli amici, la musica, la famiglia, le piccole gioie che ti regala lo stare al mondo.
Quando sono andata per la prima volta in terapia, ho spiegato il mio sistema di organizzazione della giornata. La terapista mi ha chiesto perché lo mettessi in atto e la mia risposta è stata “perché nella mia testa ha senso”. Mi ha chiesto perché facessi lo stesso con l’alimentazione e la mia risposta è stata la stessa.
Restringere, organizzare e controllare sono azioni potenti che danno l’impressione di essere padroni del proprio destino e dell’incertezza che viene sì da dentro ma anche dall’esterno. Non solo non si può mai quantificare e controllare tutte le variabili ma tenere le redini troppo strette fa perdere il contatto con le emozioni e le sensazioni. Cosa significa avere fame? Che sensazione provo quando rido? Che vuol dire uscire all’aperto e percepire il sole sulla propria pelle senza fare niente?
Ho sempre fatto fatica a trovare un equilibrio in me, ma questa è l’essenza stessa della vita, alla fine. Purtroppo, l’essere umano è per sua definizione perfettibile e per questo motivo ha sviluppato l’attitudine all’apprendimento. Cerca sempre di sopperire al suo vuoto interiore in questo modo. Io so che non sarò mai abbastanza preparata per l’imprevisto e che lo devo accogliere. Ho capito anche che passare troppo tempo ad imparare come si vive porta a perdersi l’essenza vibrante del mondo. Lasciar andare con gradualità questi schemi mi ha ridonato i colori dell’esistenza. Sto imparando a vivere le sensazioni che provo e a seguire ciò che mi dice il mio corpo perché è meritevole di cure, come lo è la mia mente. Questo è un percorso lungo una vita ma ne vale sicuramente la pena.
L’articolo è stato scritto da Martina Lovat, volontaria dell’Associazione, che ha raccontato la sua storia