Laura Bastianetto è l’autrice del Podcast “Ci chiamavano Farfalle”, un imperdibile lavoro sull’inchiesta lanciata da Riccardo Caponetti, giornalista di Repubblica, in merito allo scandalo scoppiato all’interno della Ginnastica Ritmica.
Laura ripercorre, per tutte e cinque le puntate, i percorsi di quattro atlete in particolare: Nina Corradini, Anna Basta, Sophia Campana e Sara Branciamore. Proponendoci il mito della caverna di Platone racconta di come, a volte, il più grande dei sogni si possa trasformare in un incubo fatto di abusi e coercizioni dal quale sembra impossibile uscire. Da quella prima lettera di Nina Corradini a Repubblica dell’ottobre 2022, il vaso di Pandora viene scoperchiato, mostrandoci una realtà ben diversa dall’immaginario comune sulle Farfalle Italiane.
Ciao Laura, Benvenuta. Ti faccio subito la domanda principale: abbiamo novità?
Il processo sportivo è in una fase conclusiva. Il 7 luglio si è tenuta la terza e ultima udienza del processo del Tribunale Federale. Il 29 settembre si tornerà in aula per la discussione e la sentenza. In parallelo si sta anche svolgendo l’inchiesta penale che ha aperto la procura di Monza sulle accuse a Maccarani e Tishina.
Intanto “The Show must go on”, le farfalle continuano ovviamente e giustamente a gareggiare. Vedremo che succederà.
Cosa ti ha spinto a realizzare questo Podcast?
Probabilmente la voglia di approfondire. Tutte le notizie uscite raccontano una storia: tutto viene fuori intorno al 30 ottobre, dalla famosa prima e-mail che Nina Corradini manda alla redazione di Repubblica. Subito dopo questa mail Riccardo Caponetti comincia a raccogliere altre testimonianze, come quella di Anna Basta. Dai primi articoli che escono Repubblica si accorge che il fenomeno è molto esteso, più vasto di quanto si possa immaginare. Cominciano ad arrivare messaggi ed e-mail.
La spinta principale è stata quella di “ok, approfondiamo, perché magari non riguarda solo la ginnastica ritmica”: volevamo estenderci principalmente a tutti quegli sport cosiddetti “estetici”. Altra spinta importante è stata quella di non fermarsi alle denunce: cercare di capire il malessere vero di queste ragazze. All’epoca, come anche ora, siamo di fronte a persone che accusano altre persone, le quali si difendono dicendo “è tutto normale, si è sempre fatto così”. Il Podcast nasce quindi sia come un compendio della storia che si stava delineando e sia per portare alla luce i vari punti di vista.
L’ampio raggio sul fenomeno è interessante. Io stessa mi sono chiesta, ascoltando il Podcast, se ci fossero altri esempi di “incitamento ai disturbi alimentari” all’interno dello sport, perché è di vero e proprio incitamento che parliamo, giusto?
In parte lo sport richiede un peso forma. Anche le ragazze che ho ascoltato, tutte mi dicono “nessuno di noi mette in discussione l’importanza del peso”. Questo perché nello sport esistono dei requisiti da rispettare per poter performare al meglio. In particolare in alcuni sport, come la ginnastica artistica, Il corpo dev’essere “aggraziato”. Lo sport è sacrificio e impegno; ciò che viene messo in discussione è il metodo, e quindi il lessico e gli atteggiamenti di abuso attorno a delle richieste spesso esagerate.
Non a caso, anche Gherardo Tecchi dice questo: “non demonizziamo il discorso sul peso, ma rendiamolo umano”. Il problema sono i modi utilizzati e gli scherni subiti dalle atlete, come il commento a Giulia Galtarossa riferito al “maialino in squadra”, e la stellina sul peso più basso di Sophia Campana.
Esatto. È il lessico che accompagna le richieste di riduzione del peso il problema, e anche il sacrificio costante. È vero che io mi devo sacrificare e dare tutta me stessa per una performance di un minuto e mezzo, ma lo faccio beneficiando di una ricompensa. Nel Podcast abbiamo puntato molto sul fattore età: tutto ciò avviene in adolescenza, quando inizi a prendere le misure con un nuovo corpo. Quando devi prendere confidenza con un “involucro” diverso, con i cambiamenti che intervengono con la pubertà. È chiaro che le pressioni e un certo tipo di metodo non funzionano per tutti.
Io direi che è questo è il fulcro del problema: il punto non è se la Maccarani (Emanuela, ndr) è colpevole. Io non lo so e non sta a me dirlo: la giustizia farà il suo corso. Però se delle ragazze hanno lamentato un forte malessere e hanno lanciato un grido d’aiuto, quel richiamo va sicuramente ascoltato.
Qual è stato il tuo impatto emotivo parlando con queste ragazze?
Estrema lucidità innanzitutto. In queste situazioni è molto facile prendere la parte di qualcuno, cosa che non volevo succedesse. Dopodiché chi è giornalista lo sa bene, l’oggettività totale è impossibile, perché c’è qualcuno che sta parlando, qualcuno che racconta la sua storia, e pur rimanendo oggettivi e verificando tutte le fonti c’è un filtro che passa per l’esperienza personale.
Nonostante io sia lontana da quel tipo di problematica, a un certo punto si viene coinvolti quando ci sono racconti molto intimi, com’è successo in particolare con una delle ragazze. Quando ripercorreva con la memoria un certo periodo, era evidente la sofferenza. Impossibile non provare empatia.
Anche chi si mostra carica e positiva, a oggi, quando con la memoria torna a un certo passato di sofferenza, mostra un forte cedimento.
Questo accade in particolare quando si rivivono alcuni episodi che coinvolgono le famiglie e quando si ripercorre con la memoria quella che viene definita “la caduta degli dei”, ossia la smitizzazione della figura adulta: in questo caso legata spesso alla figura dei tecnici. Non scordiamoci che le allenatrici sostituiscono in gran parte le figure genitoriali, perché si tratta di ragazze che vanno via di casa a undici o dodici anni.
Credo che potremmo parlare di ribaltamento dei ruoli genitoriali, giusto? Come dici nel tuo Podcast, queste sono spesso bambine “adultizzate”. Io la vivo come qualcosa di molto vicino alle dinamiche di un Disturbo alimentare, anche la persona malata pensa spesso “non dico nulla ai miei genitori così non si preoccupano”.
Sì, questo lo raccontano tutte in realtà. Si era innescato un meccanismo di totale protezione nei confronti dei genitori. Inizialmente probabilmente è stato un meccanismo inconscio dovuto alla lontananza da casa: “rassicuro i miei genitori perché non voglio mettere pressione, perché amo quello che faccio”.
Non dobbiamo scordarci che queste ragazze sono follemente innamorate della ginnastica, ancora oggi. Nel momento in cui mi rendo conto che qualcosa non va, ma voglio proteggere la mia passione, allora mento ai genitori perché mi faccio forza pensando che possa essere una situazione passeggera, un momento di sconforto. E poi tutte mi hanno detto che il pensiero ricorrente era “Funziona così, deve essere così, sono io quella sbagliata”.
Se poi la situazione si aggrava allora lì scatta la protezione vera e propria verso i genitori che hanno indubbiamente investito tanto.
La mamma di Anna Basta, Barbara Tagliaferri, ad esempio mi ha detto che le sue amiche le dicevano spesso che lei e suo marito erano “pazzi”, perché anche la loro vita era strutturata in base a quella della figlia: le stesse vacanze erano modulate sulle sue gare. Per cui è un meccanismo di protezione che scatta anche per dire “Ok, avete fatto un buon investimento, è tutto a posto, va tutto bene”.
Anche quando decidono di lasciare non dicono subito tutto ai genitori, decidono di raccontare un’altra bugia.
È chiaro che a livello emotivo è difficile raccontare un abuso. Si racconta una verità sia per proteggere i propri genitori, sia per proteggere se stessi dall’aspetto traumatico.
Il fatto è che l’abuso non è immediatamente evidente. Lo stesso linguaggio di cui la società è impregnata è spesso un linguaggio sbagliato se lo vediamo in maniera oggettiva, ma non ce ne rendiamo conto: “culona”, “vabbè dai starà scherzando”, oppure “non mangio perché è giusto così, e chi sono io per dare giudizi?”.
Ai livelli alti “magari funziona così”. Sophia Campana, ad esempio, che ha conosciuto il metodo americano, pensa proprio questo: “magari è per questo che gli italiani sono così bravi!”. E il padre, italiano, risponde con l’aspetto diciamo tradizionale: “quando mia nonna si arrabbiava mi tirava la ciabatta, forse in Italia funziona così”.
È tutto legato alla percezione, a quello che percepisco come giusto, anche in base al mio vissuto, ai costumi e a un metodo che finora si è rivelato infallibile.
Fino a quarant’anni fa se sbagliavi ti mettevano dietro la lavagna o ti bacchettavano la mano, io, come tutti, mi ricordo i racconti dei genitori sui metodi delle maestre. Era giusto? Io direi che abbiamo fatto passi in avanti.
In effetti, negli anni, abbiamo imparato molto dalla pedagogia e dalla psicologia infantile, e questi metodi suonano un po’ anacronistici applicati all’oggi. Anche se sappiamo che sono metodologie che vengono direttamente dall’Unione Sovietica e riapplicati anche qui. A questo proposito volevo farti una domanda curiosa: nel Podcast ci parli delle atlete sovietiche che vengono appositamente messe incinte e poi fatte abortire dai propri allenatori. Sai dirci di più a riguardo di questo fatto drammatico?
Ti dico la verità, l’ho scoperto durante la ricerca che ho fatto, quando cercavo di capire da dove venisse quel metodo applicato. Alcune cose sono molto note, come il caso delle atlete cinesi e le carte di identità truccate, oppure altre cose emerse in Inghilterra e in America con la coppia famosa (Martha e Bella Caroli, ndr), su cui c’è grande documentazione. Più di quello che ho raccontato, in realtà, non c’è. Però sappiamo che era una pratica della DDR da dopoguerra: c’era una guerra fredda che si giocava sui campi sportivi. Premeva il tentativo di vincere a tutti i costi e dimostrare la grande potenza: da lì questa storia che è mostruosa.
Nina Corradini e Anna Basta erano giovanissime quando hanno denunciato gli abusi. Tanti atleti o atlete invece si sono schierate dalla parte di Emanuela Maccarani, al grido di “giù le mani dalla Maccarani”. Perché ancora tanti non riescono ad uscire dalla Caverna di Platone? Paura? Non riuscire a districarsi dalle mani di un aguzzino? Qual è secondo te il motivo? Parlo soprattutto dei genitori, i quali sono al corrente del fatto che esistono persone che potrebbero far del male alle loro figlie o ai loro figli.
Il punto è che c’è una grandissima passione unita ad un grandissimo investimento. E quando qualcuno arriva e ti dice che l’investimento potrebbe essere sbagliato, non ci vuoi credere, e ti aggrappi alla passione o al sacrificio fatto.
Le bambine non hanno strumenti per discernere cosa sia giusto e cosa sbagliato, e spesso si attaccano alla cosa più semplice e conosciuta: la Maccarani è una tecnica molto stimata. Ha portato la nazionale a raggiungere grandissimi successi, è stra-titolata. Per cui tutto ciò è anche la sua forza.
Il punto è che in questa storia, come in tante altre, la comunità è polarizzata: o con loro o contro di loro. E per chi è contro le ragazze che hanno denunciato, Nina (Corradini, ndr) diventa quella fragile, quella che non ce l’ha fatta, quella non adatta. E io credo che il problema invece stia proprio in questa dichiarazione. Il mondo della ginnastica diventa fin da subito “famiglia”, e a maggior ragione, se mi sono sentita non compresa, se mi sono sentita sbagliata, qualcuno si sarebbe dovuto chiedere cosa è andato storto, cosa c’era che non andava.
Anche le dichiarazioni della Maccarani sono sulla difensiva: “il metodo funziona, loro non vanno bene.” Questo è sconvolgente, al di là della colpa. Era lei la figura di riferimento, il modello.
Ciò che rimane, anche quando l’inchiesta finirà, anche se tutti dovessero essere assolti, è il fatto che nessuno si sia accorto che qualcosa non andava e le abbiano lasciate sole.
Durante il Podcast ho dedotto come ci possa essere un grosso legame tra il controllo necessario per la ginnastica, per dosare i movimenti, e in un Disturbo del comportamento alimentare. Potrebbe essere che più si acuisce il controllo nello sport, più si acuisce quello nel cibo? Sono due strade che si possono facilmente incrociare, quindi io mi chiedo: è possibile che nessuno abbia mai chiamato un dietista o un nutrizionista per queste ragazze?
Domanda lecita, e su questo la federazione c’è da dire che è intervenuta da subito. Prima l’allenatrice incarnava tutti i ruoli possibili, come un “one man band”. È necessario un team di professionisti che si prendano cura della preparazione tecnica, ma anche del benessere psicofisico: l’età in cui si interviene è delicatissima.
Figure come nutrizionista e psicologo sono non solo necessarie, ma doverose.
Un altro anello di congiunzione con i Dca è la competitività. Loro raccontano di come si sentissero sole, di come fossero sole, anche con le compagne di squadra. È chiaro che se prendi delle adolescenti e le metti in fila per pesarsi, praticamente nude, anche lì stimoli la competitività, sia dal punto di vista atletico che da quello corporeo. C’è un’assoluta mancanza di prevenzione?
Lo dicono un po’ tutte: in palestra si fa parte di una squadra, ma poi in stanza si soffre di una grande solitudine. La competizione nello sport è normale: io guardo l’altro perché voglio capire come migliorare. Ma considerata l’età, ma soprattutto il metodo denunciato, la bambina, o adolescente che sia, non ha gli strumenti per difendersi e si può ammalare.
È il momento in cui si spinge di più, in particolare per la ginnastica, perché è proprio a undici o dodici anni che devi dimostrare di poter arrivare “ai livelli alti”. Senza la giusta cura di tutti gli aspetti, preservare il benessere psicofisico delle atlete in questo lavoro non solo non è possibile, ma è anche pericoloso.
Contenuto realizzato da Cristina Procida