I disturbi alimentari sono cresciuti negli ultimi anni e si tratta di una patologia che una volta insorta si auto-mantiene.
Questo accade perché i disturbi del comportamento alimentare si definiscono disturbi ego-sintonici, ciò significa che la persona che ne soffre li considera una parte di sé. In altre parole, una persona che soffre di DCA considera la sua malattia, con tutti i disagi che essa comporta, come un aspetto della propria identità.
La propria condizione non è vissuta come un disturbo o una malattia da curare, bensì come una propria scelta di vita.
Per questo motivo sono generalmente i familiari a prendere contatto con gli specialisti affinché si intraprenda un percorso di cura psicologica. La richiesta terapeutica, dunque, non scaturisce da una maturazione autonoma, e questo comporta anche una scarsa disponibilità iniziale a lavorare su sé stessi.
Chi ha un DCA, inoltre, trae dei vantaggi secondari dati dalla sensazione di controllo esercitato sul proprio corpo e sul cibo, il quale diventa un meccanismo per gestire (in maniera disfunzionale) le difficoltà. Questo accade perché c’è qualcosa nella propria vita che non si riesce a controllare o gestire, per questo si sposta il controllo su qualcosa di controllabile (il cibo).
Il DCA diventa un tentativo autodistruttivo e patologico di risposta ad un disagio psicologico generalizzato e in profondità.
Tutto ciò rende molto difficile la presa di coscienza di avere una malattia e la conseguente presa in carico della persona.
Chi soffre di disturbi dell’alimentazione è come se parlasse un’altra lingua; mi spiego meglio: ci sono delle vere e proprie convinzioni radicate in queste persone che sono difficili da scardinare, in quanto sono state funzionali in un certo (malsano) senso, ad esempio nella perdita di peso.
In questi soggetti è presente un’alterata immagine corporea, riferita al valore positivo o negativo che si attribuisce in funzione dell’immagine del proprio corpo, che li porta a vedersi e sentirsi “grassi” anche quando sono in una situazione di grave sottopeso.
Questa percezione alterata alimenta il desiderio di cambiare il proprio corpo e sottoporsi, ad esempio, a diete restrittive, a categorizzare il cibo come buono o cattivo, ad eliminare intere categorie di cibi, a praticare eccessiva attività fisica…
Questi comportamenti si trasformano velocemente in un controllo ossessivo, fino a portare ad una condizione di sottopeso grave, al ritiro sociale, alle condotte di compensazione e all’amenorrea.
Cosa si può fare per aiutare chi soffre di disturbi alimentari?
In linea generale è necessario ridurre l’incidenza del rischio di malattia promuovendo iniziative educative con esperti del settore.
Se il soggetto è già a rischio si sottolinea la possibilità di terapia, motivandolo a ricorrere ad uno specialista e facilitandone i contatti.
Se le condizioni sono già gravi, ci si occupa del contenimento delle conseguenze debilitanti del DCA. Lo scopo è prevenire per quanto possibile ulteriori complicanze cliniche tali da mettere il paziente in pericolo di vita. Si pone spesso il bisogno di un ricovero in un centro specializzato.
Allo stato attuale ci sono diverse terapie efficaci per la cura dei disturbi alimentari, per esempio la letteratura scientifica riconosce che la terapia familiare è il trattamento d’elezione con i pazienti giovani e adolescenti. Rispetto alla gestione dei sintomi, come le condotte compensatorie, una terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul controllo dell’alimentazione ha estrema efficacia.
Riguardo gli interventi è di fondamentale importanza lavorare con una equipe multidisciplinare, ovvero supportata da diverse figure professionali quali dietista, medico, psichiatra, psicologo, psicoterapeuta ecc. e porre attenzione ad una costruzione comune di una coerenza interna, di interventi strategici coordinati, di una progettualità condivisa e contrattata più volte nel tempo.
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L’articolo è stato scritto da Eleonora, volontaria dell’Associazione