Il legame tra i Disturbi Alimentari e la comunità LGBTQIA+

il legame tra disturbi alimentari e comunità lgbtqia+

Tradizionalmente, i Disturbi Alimentari (DCA) sono associati al genere femminile, in particolare a donne bianche, eterosessuali e cisgender. In realtà, i DCA sono un fenomeno trasversale a tutte le intersezioni sociali. Riguardo alla comunità LGBTQIA+, uno studio condotto da NEDA (National Eating Disorders Association) ha mostrato come il 54% degli adolescenti LGBTQIA+ intervistati ha riportato una diagnosi di disturbo alimentare, mentre un ulteriore 21% sospettava di soffrirne senza una diagnosi ufficiale.

Perché i DCA sono così diffusi nella comunità LGBTQIA+?

I disturbi alimentari sono particolarmente comuni nella comunità LGBTQIA+ a causa di una serie di fattori sociali e psicologici. Tra questi, spiccano la discriminazione, il bullismo e le molestie subite per l’orientamento sessuale o l’identità di genere, che creano forti disagi emotivi. 

Il timore del rifiuto durante il coming out e l’internalizzazione di pregiudizi come omofobia e transfobia possono minare l’autostima e favorire comportamenti disfunzionali. In più, le pressioni estetiche presenti in alcuni ambienti LGBTQIA+, soprattutto tra gli uomini gay, contribuiscono a generare insicurezze e alimentare l’insoddisfazione del proprio corpo.

Per le persone transgender e non binarie, la disforia di genere amplifica il rischio di insorgenza di Disturbi Alimentari. Questi individui possono ricorrere a restrizioni alimentari, eccesso di esercizio fisico o altri metodi autolesionisti nel tentativo di modificare il proprio aspetto estetico al fine di allinearlo al genere con cui si identificano. Anche la difficoltà a conformarsi a ideali estetici dominanti nella società può essere un enorme fattore di spinta per l’insorgenza di un disturbo alimentare.

Gli individui LGBTQIA+ affrontano sfide uniche come discriminazione, stigma e isolamento sociale, che li rendono più vulnerabili non solo ai disturbi alimentari, ma anche a condizioni concomitanti come il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), la depressione e l’ansia. I dati mostrano che il 63% dei pazienti LGBTQ+ presenta sintomi di PTSD, rispetto al 45% dei pazienti cisgender ed eterosessuali. Questa maggiore complessità richiede un approccio terapeutico che affronti simultaneamente il disturbo alimentare e i disturbi correlati per migliorare l’efficacia del trattamento.

… e come impatta lo stigma sul percorso di guarigione?

Nella comunità LGBTQIA+ possiamo analizzare le conseguenze di stigmatizzazioni che non si limitano a essere credenze sociali, ma che spesso diventano parte integrante dei singoli individui.

Partendo dal presupposto che i DCA colpiscono qualsiasi fascia d’età e cultura, non possiamo non tener conto del fatto che non tutti abbiano già reso noto il proprio orientamento o che addirittura ne siano consapevoli.

I motivi che portano gli individui della comunità LGBTQIA+ a non chiedere subito aiuto sono, in realtà, legati al loro vissuto personale, spesso fatto di bullismo e discriminazione.

Come si può combattere lo stigma e diventare inclusivi anche nelle cure?

Partendo dal personale sanitario, il primo passo potrebbe essere il riconoscimento visivo: utilizzare una spilla LGBTQIA+ o altre spille con la scritta “safe with me” o “ally” può essere considerato un primo passo verso il riconoscimento di uno spazio sicuro, in cui non è necessario tenere alte le difese. 

Anche l’ascolto attivo gioca un ruolo importante nella costruzione di fiducia reciproca, poiché permette di allontanare i giudizi e mostrarsi interessati. 

Restare informati sui termini corretti e usare un vocabolario idoneo all’individuo che si ha di fronte è un altro punto di partenza per rendere l’accesso alle cure e il trattamento maggiormente inclusivi.

Orientamento sessuale e disturbi alimentari: prime evidenze

Le ricerche suggeriscono un legame tra orientamento sessuale e disturbi alimentari, specialmente negli uomini. Uno studio del 1984 ha evidenziato una maggiore prevalenza di omosessualità tra gli uomini con disturbi alimentari. Al contempo, uno studio italiano del 2012 ha mostrato che gli studenti universitari omosessuali presentano più insoddisfazione corporea e disturbi alimentari rispetto ai loro coetanei eterosessuali.

Crisp e Morgan hanno proposto l’ipotesi che, per alcuni uomini, i disturbi alimentari possano essere un meccanismo di coping per gestire l’angoscia legata all’omosessualità repressa. Inoltre, la malnutrizione associata ai disturbi alimentari, in particolare l’anoressia, può influenzare negativamente la libido maschile, riducendo i livelli di testosterone.

Nonostante ciò, gli uomini gay sembrano più disposti a cercare aiuto rispetto ai loro coetanei eterosessuali, mentre la minore diagnosi in quest’ultimo gruppo potrebbe essere attribuita a fattori culturali e sociali. Le persone LGBTQIA+ spesso evitano di chiedere aiuto per paura di essere giudicate.

L’orientamento sessuale sembra influenzare anche le manifestazioni dei disturbi alimentari: gli omosessuali sono più propensi a diete restrittive, mentre gli eterosessuali a diete iperproteiche, riflesso di diversi ideali di corpo nelle rispettive comunità.

Quali sono i limiti della ricerca e le prospettive future?

In sintesi, l’orientamento sessuale influisce sia sul tipo di disturbo alimentare sia sulla decisione di cercare aiuto. 

La maggior parte degli studi sull’orientamento sessuale presenta però limiti metodologici: campioni ridotti, assenza di studi randomizzati, campioni non rappresentativi e una tendenza a raggruppare omosessuali e bisessuali. 

Inoltre, la visione tricotomica (etero, omo, bi) semplifica eccessivamente l’orientamento sessuale, limitando la validità dei risultati ottenuti. Gli studi sui disturbi alimentari e orientamento sessuale, finora, non hanno considerato i disturbi alimentari più recenti.

È necessario ampliare le ricerche, includendo questi nuovi disturbi e gruppi più ampi di persone. Solo così si potrà parlare di inclusione.

Inclusione oltre che cura

La comunità LGBTQIA+ ha bisogno di un’assistenza sanitaria che vada oltre la mera diagnosi, promuovendo ambienti sicuri e inclusivi dove ogni individuo possa sentirsi valorizzato. 

Prevenire i disturbi alimentari significa investire nella salute mentale, offrendo supporto psicologico e educando alla positività corporea. Un approccio personalizzato, che tenga conto delle specificità di ogni individuo e delle sfide legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere, è fondamentale per garantire il benessere di questa comunità.

L’articolo è stato scritto da Luna e Alice, volontarie dell’Associazione

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