“Come stai?” Questa è sempre la prima domanda che mi pone il mio psicologo all’inizio di ogni seduta del mio percorso di guarigione dai disturbi alimentari, dopo un caldo saluto.
E ogni volta, più che un “come stai?” mi sembra di rispondere alla domanda “Chi sei?” Puntualmente, non riesco a rispondere con un semplice “tutto bene e tu?” Forse perché effettivamente la sofferenza che si affronta quando si vive con i disturbi alimentari è profonda. Forse perché effettivamente lo stare male durante un percorso di guarigione è necessario, è utile. Ed è segno di consapevolezza e spunto di riflessione.
Ma tutto ciò è reale o è solo una sensazione? Il malessere generale è costante, si appoggia alla superficie. Ma il mio psicologo parte proprio da qui per aiutarmi ad affrontare la malattia. Ed ecco che quindi, da una banale domanda da mille mila risposte, iniziamo la terapia.
Penso quindi che sia effettivamente molto difficile riuscire a rispondere in modo sincero a questa domanda, quando ci viene posta. Ma il posto giusto per farlo è proprio il luogo di cura.
Il percorso di guarigione e l’identità
Durante il percorso di guarigione la maggior parte delle persone si sente peggio del solito e questa sensazione tende a far perdere la motivazione e la forza di continuare a combattere.
Ma voglio dirvi che se durante un percorso stiamo peggio, è proprio perché lo stiamo affrontando nella maniera giusta.
Se prima i sintomi ci coccolavano, ci accudivano e ci davano sicurezza, ora che stiamo cercando di lasciarli andare siamo scoperti. Ci ritroviamo spogli, denudati degli strumenti che fino ad ora ci hanno permesso di sentire di avere i piedi appoggiati al mondo reale. Ma era veramente il mondo reale? Non è forse reale il mondo che non ci permettiamo di conoscere e di cui abbiamo così tanta paura?
I disturbi alimentari assomigliano a dei vortici, dei tornadi, delle spirali. Sono dei labirinti invisibili e complicati da riconoscere e conoscere. Ci lasciano da soli a gestire quel miscuglio di emozioni e sensazioni, gesti e azioni, fino ad accertarsi che senza di essi non siamo nessuno. Fino a quando iniziano ad appartenerci, descriverci, distinguerci.
La parte più difficile da individuare e da sconfiggere è esattamente questa. Siamo convint* che solo la malattia è in grado di farci vivere. O meglio, solo la malattia è in grado di farci sentire vivi. Solo la malattia ci fa provare forti emozioni. Tutto quello che c’è al di fuori è apatia, è nullità, è monotonia, non è rischioso.
Ed ecco che allora la nostra reale effervescenza svanisce, si nasconde. Ed emerge solo l’azione mentale, che ci confonde.
Ci confonde nel senso che, non fermandosi mai, ci allontana sempre più dalla nostra anima, dalla nostra essenza. Da chi siamo veramente.
Credere a ciò che la mente ci suggerisce
Io credo fermamente a quello che la mia mente mi suggerisce. Per esempio mi suggerisce di essere un puzzle di mille pezzi, monocolore, impossibile da ricomporre. Da impazzire!
Mi suggerisce di ritrovarmi nella selva oscura, come Dante, che perse la diritta via.
Sono come Jim Carrey in The Truman Show, catapultato in questo finto mondo, tutto strano e insensato.
Sono come Alice nel paese delle meraviglie che non è serena nemmeno quando dorme, assalita dagli incubi e dalle paure.
Sono come Coraline, che non riesce ad uscire dal castello.
Sento che non so chi sono.
Mi sembra di vivere in questa bolla che pare si chiami pianeta Terra senza capirne il senso. E non mi piace non capire.
Mi sembra di essere in modalità aereo, come il telefono, che ad alta quota non riceve quello che sta succedendo più in basso. Che viene comunque bombardato di messaggi e notifiche ma non le riceve. Non le vede. Non le legge. Non le scopre. Finché non tocca di nuovo terra.
E io forse sto volando? Forse sto proseguendo il mio viaggio senza esserne consapevole. Mi sembra che sia proprio così. Quando guardo giù dal finestrino mi sembra tutto così strano, tutto così senza senso. Tutto si fa piccolo e meccanizzato. Io sto lì, seduta, senza toccare terra. E passo da una città all’altra senza appoggiare i piedi.
Ecco come mi sento. Ecco come forse ci sentiamo.
Chiedere aiuto per distinguere realtà e finzione nei disturbi alimentari
È necessario riuscire a suddividere la realtà dalla finzione. È necessario chiedere aiuto, sfruttare gli aiuti offerti, prendere una decisione.
Affidarsi, fidarsi e farsi guidare dai professionisti. Che vogliono solo il nostro bene.
Dobbiamo chiudere gli occhi e lanciarci tra le loro braccia cadendo all’indietro. E loro ci prenderanno sicuramente, tutte le volte.
Dobbiamo prendere fiato e ricominciare.
Dobbiamo sbagliare e, al contempo, imparare a non commettere più quello sbaglio.
Dobbiamo sapere che siamo forti e che valiamo qualcosa per il semplice fatto che siamo esseri viventi.
Dobbiamo sapere e capire che al di fuori della nostra bolla ci sono cose che ci possono far provare emozioni fortissime, come fa la malattia. Ma emozioni benefiche, emozioni reali e genuine.
Dobbiamo capire che il cibo è reale e concreto e l’emozione è astratta. Ciò significa che non dovrebbero mai aggrovigliarsi tra di loro.
Dobbiamo capire che cibo ed emozioni viaggiano da sempre su due binari paralleli.
Dobbiamo riuscire a distaccare le emozioni dal cibo. A dire ai disturbi alimentari che non parlano di verità.
Nulla è perduto: la soluzione ai disturbi alimentari esiste
Le persone che hanno deciso di dedicare la loro vita per aiutare il prossimo sono una benedizione. E fortunatamente tutti noi possiamo essere aiutati. E la terapia giusta per noi la troveremo sicuramente.
Lo dobbiamo volere.
Ci dobbiamo far aiutare per riuscire a volerlo. Ci dobbiamo far aiutare da chi ha più esperienza e competenze.
Possiamo rivoluzionare la nostra vita e la nostra persona a qualsiasi età, il tempo non esiste. Nulla è perduto. Tutto inizia e tutto finisce.
Ed è proprio questo il bello.
E quanto sarà soddisfacente e rilassante sapere che abbiamo fatto anche solo un piccolo passo verso la libertà?
Veramente vogliamo rimanere chiusi in gabbia intrappolati nelle nostre paure?
Veramente vogliamo sopravvivere e invidiare la vita vera?
Ce lo dobbiamo permettere, dobbiamo permetterci, per lo meno, di provarci.
Perché ognuno di noi non è la malattia. Non siamo i nostro disturbi alimentari.
La malattia è solo il risultato di una somma di svariati e a volte irriconoscibili fattori.
Ma affrontando i fattori e cambiandoli, o accettandoli, il risultato sarà differente.
E sarà pieno di sole.
Permettiamocelo.
Guardiamo un po’ più in là.
E facciamoci aiutare per uscirne felici.
In fin dei conti, se il puzzle monocolore lo hanno creato, vorrà dire che tutti i pezzi si incastreranno. E che la soluzione esiste.