La prima cosa che mi ha colpito di Sebastiano è stato il sorrisone che mi ha mostrato appena ho aperto la videochiamata. Come se mi avesse detto “Sono davvero contento di dedicare una parte del mio tempo a quest’intervista”.
Un’intervista che si è poi trasformata in una chiacchierata rilassata e intima in cui Sebastiano ci ha raccontato un po’ di sé e della sua storia, un po’ del suo libro… E un po’ di Piccolo principe.
Ciao Sebastiano, grazie per aver accolto il nostro invito. Come noi di Animenta, anche tu sei impegnato in attività di sensibilizzazione sui disturbi alimentari al fianco di un’associazione che si chiama Mi nutro di vita.
Da cosa nasce questa scelta? E cosa ti spinge a continuare ogni giorno?
Dopo esser guarito (ho sofferto di anoressia), non ho più parlato della mia malattia per diversi anni. Un po’ perché non ne volevo più sapere, un po’ perché, una volta che ho ricominciato a vivere, me ne sono quasi “dimenticato”.
Il mio impegno in questa direzione è cominciato quando ho iniziato a collaborare con l’associazione La vita oltre lo specchio, con sede a Pisa, con cui ho partecipato ad attività quali sportelli d’ascolto e a diversi eventi.
Ed è proprio durante uno di questi eventi che nel 2018, a Biella, ho conosciuto per caso Stefano Tavilla, Presidente di Mi nutro di vita.
Ricordo di essermi rivolto a lui con fare volutamente polemico, ponendo l’accento sul fatto che di queste malattie parlano quasi esclusivamente le donne anche perché di queste malattie si parla quasi esclusivamente al femminile.
Insomma, raccontando la mia storia e vedendo che questo poteva essere d’aiuto a tante persone ho capito che per me continuare in questa direzione è una sorta di “dovere”, mi sento chiamato a farlo. Pur conciliando il volontariato, cui dedico molto tempo, con tutte le altre attività di cui mi occupo.
Come dicevi, spesso i disturbi del comportamento alimentare vengono attribuiti prevalentemente alla fascia degli adolescenti e, soprattutto, vengono associati quasi unicamente alla popolazione di sesso femminile. Da uomo, cosa ne pensi? E cosa credi si possa concretamente fare per ridurre questo gap?
Quando mi sono ammalato, ci è voluto del tempo prima che i medici riuscissero a consegnarmi una diagnosi corretta. Perché ero un ragazzo.
Oggi sono sicuramente positivo a riguardo, i ragazzi che parlano della loro malattia “uscendo allo scoperto” sono molti di più, e forse si sono fatti dei passi avanti anche in termini di diagnosi medica.
Ma trovo che si debba lavorare sul linguaggio, sulla comunicazione. È da qui che bisogna partire.
Se ci pensi, in una società in cui si sta iniziando a lottare veramente affinché il genere femminile venga riconosciuto (anche e proprio in termini di linguaggio), questa è forse l’unica eccezione, l’unica questione in cui è il genere maschile a non essere riconosciuto.
Quando dico che è necessario partire da qui, penso alla mia esperienza.
Quando ti trovi in una clinica e ogni mattina senti i medici che raggianti esclamano “Buongiorno principesse!”, o quando semplicemente sfogli un opuscolo della struttura e in ogni pagina trovi unicamente riferimenti alle pazienti donne avverti un forte senso di pesantezza.
E, totalmente immerso in questa narrazione, inizi a vergognarti, perché la tua è una malattia da ragazze, ma tu sei un ragazzo…
E ci credo che poi non ne parli.
Perché senti che non se ne parla. E anche quando se ne parla riferendosi al genere maschile, lo si sottolinea, quasi come se fosse l’eccezione e non qualcosa di “normale”.
Per farla breve: di anoressia o bulimia può ammalarsi chiunque, maschio o femmina che sia, allo stesso modo.
Hai scritto un libro intitolato Corri corvo corri. Ce lo racconti un po’?
Lo spunto per scriverlo me lo ha dato Stefano (Tavilla, ndr), poco dopo essere entrato nell’associazione.
All’epoca non c’erano molti libri che parlassero di ragazzi. C’era ad esempio Giganti d’argilla, di Laura Dalla Ragione, ma la prospettiva era comunque diversa, più “scientifica”.
Il mio desiderio era sempre lo stesso, quello di poter fare del bene con quella specie di dovere di cui parlavo prima, spiegato molto bene dal libro I sommersi e i salvati, di Primo Levi: chi ce l’ha fatta ha un po’ il compito di salvare chi ancora ha un pezzo di strada da percorrere.
La stesura del libro è stata molto veloce, l’ho scritto in un mese e mezzo.
Sono stato agevolato in questo perché in realtà ho ripreso in mano il diario che ho scritto ai tempi della malattia (anche se il libro non è scritto in forma diaristica), in cui per me la scrittura ha avuto un valore terapeutico, mi ha aiutato molto ad esternare le emozioni che provavo.
E ad oggi mi dico “Menomale che l’hai scritto quel diario!”, perché mi rendo conto di avere ricordi molto frammentati, con dei veri e propri buchi.
Sicuramente riprendere in mano quegli anni e sfogliarli non è stato semplice per svariati motivi, tra cui il fatto che alcune persone oggi non ci sono più. Anche se sicuramente l’averle fatte rivivere attraverso queste pagine mi rende felice.
Quando ho scelto di scrivere il libro, l’ho fatto con la consapevolezza che non sarei voluto scendere nel banale.
Volevo scrivere un libro autentico e sincero, da dedicare a chi fosse disposto a fare anche un po’ di fatica, a chi realmente volesse andare oltre. Le prime quattro pagine del libro, ad esempio, sono molto criptiche.
Eppure c’è chi questo sforzo l’ha voluto fare.
Non pensavo che il libro potesse trovare questo forte riscontro. Molti mi hanno scritto dicendomi che grazie alle mie parole hanno chiesto aiuto, che si sono sentiti meno soli.
Una curiosità per concludere. Anzi, due. Per la tua pagina Instagram, su cui sei molto attivo, hai scelto l’identificativo kalte_sterne_. C’è un motivo specifico? (Avendo studiato tedesco per 10 anni ne sono stata inevitabilmente attratta, ndr).
E poi volevo ancora chiederti, se ti va di condividerlo con noi e con chi ci leggerà, qual è il significato della volpe, che sembra essere un po’ il tuo “animale totem”.
Kalte Sterne (degli Einstürzende Neubauten, un gruppo tedesco) è il titolo di una canzone che ascoltavo molto spesso quando stavo male.
Il testo sembra una poesia.
Durante gli anni della malattia scrivevo questo titolo, traducibile in italiano con “stelle fredde” o “stelle spente”, praticamente ovunque, perché mi parlava della pesantezza che avvertivo, così come del fatto che anche nelle stelle spente possiamo vedere dell’altro, che nelle difficoltà si possono sempre scovare delle opportunità.
Quanto alla volpe, sì, ho persino un peluche che porto con me ovunque. È un simbolo che viene dal Piccolo principe.
C’è stata un’accesa diatriba sulla scelta di utilizzare il termine “addomesticare” nella versione italiana del libro per descrivere la relazione tra il Piccolo principe e la volpe.
Ecco, io trovo invece che questo termine sia molto potente. Lo leggo come uno “standosi vicini senza secondi fini, si può crescere. Insieme”.
E ritrovo questo aspetto nella mia esperienza personale.
Ricordo ad esempio quanto inizialmente mi spaventasse la vicinanza con alcuni pazienti psichiatrici e quanto invece poi relazionarmi con loro mi abbia incredibilmente arricchito. Ci siamo addomesticati a vicenda e abbiamo imparato a stare insieme per davvero.
Spesso ci si affanna, si vuole necessariamente dire o fare qualcosa. E invece starsi vicini è molto più semplice di così.
A volte si può stare l’uno accanto all’altro anche restando in silenzio.