“Quando un figlio si ammala di un disturbo del comportamento alimentare, anche i genitori e il resto della famiglia si ammalano insieme a lui”. È iniziata così la chiacchierata che abbiamo fatto con Agnese Buonomo, giornalista e vicecaporedattrice a Studio Aperto. Una chiacchierata intima e generosa, proprio come Agnese, che ha vissuto e vive le dinamiche e gli squilibri che un disturbo del comportamento alimentare porta all’interno di una famiglia in prima persona, da mamma. Perché un genitore non è un osservatore esterno, ma una parte coinvolta.
E, dopo averne parlato all’interno del suo libro, La famiglia divorata, ha raccontato anche a noi questa sofferenza, lasciando una porta aperta verso il futuro e ricordando ancora una volta che da queste malattie, con un supporto terapeutico adeguato e integrato, si può guarire.
Quando un figlio si ammala di un disturbo del comportamento alimentare anche i genitori e il resto della famiglia si ammalano insieme a lui. Ci spieghi un po’ meglio? In che senso?
Nel libro che ho scritto, La famiglia divorata, ho proprio cercato di mettere a fuoco cosa accade quando un ragazzo o una ragazza si ammala di bulimia, binge eating, o anoressia – solo per citare le patologie più note. La malattia alimentare è come uno tsunami che spazza via ogni serenità, ogni pensiero positivo, ogni leggerezza.
La vita di tutti i componenti della famiglia (genitori, fratelli, sorelle) perde ogni riferimento e tutto ruota attorno al disturbo. I genitori inizialmente fanno fatica a dare un nome a ciò che sta accadendo al loro figlio. Le ragioni spesso sono molteplici: in parte non comprendono ancora i meccanismi della malattia, in parte sperano che la cosa si risolva, che sia una fase, un momento di passaggio legato alle difficoltà dell’adolescenza; in parte hanno paura di prendere coscienza di qualcosa che non riescono a gestire, ad affrontare. Si prova un dolore profondo accompagnato da un senso di scoramento e di angoscia costante e da una totale incapacità ad avvicinare quel figlio che non si riconosce più.
Troppo spesso poi la malattia viene vissuta con un grande senso di colpa, come se tutto il dolore che il figlio prova e riversa nel cibo fosse causato da madre e padre. Quando in realtà si sa che le cause sono diverse. È evidente che le relazioni familiari hanno un peso, ma i genitori non possono essere messi sul banco degli imputati. Madri, padri, fratelli e sorelle soffrono nel vedere la persona a cui vogliono bene distruggersi, annientarsi. Soffrono nel venire allontanati o nel non riuscire a comunicare più con il loro caro, soffrono di un profondo senso di impotenza. Per questo la famiglia va sostenuta anche dal punto di vista terapeutico, perché diventi una risorsa nella cura e non un ostacolo.
Una mamma o un papà desiderano solo vedere il proprio figlio stare meglio e cercano di fare tutto ciò che, secondo la loro prospettiva, è in loro potere per aiutarlo. Un ragazzo o una ragazza che si ammala di un disturbo alimentare si sente in gabbia. Ci si può incontrare a metà strada?
Il ruolo dei genitori di un figlio malato di DCA è un ruolo faticoso, doloroso, complesso, difficile, delicato. Una madre affetta di bulimia da oltre 25 anni mi ha detto una cosa illuminante: “Avere a che fare con una persona malata di un disturbo alimentare è come camminare su un campo minato: se non conosci l’esatta posizione delle mine salti per aria”. Ecco, il genitore rischia di saltare per aria più volte nella stessa giornata, milioni di volte in un percorso di cura.
Quando una ragazza non mangia o assume altri comportamenti disfunzionali, la madre, dilaniata dall’ansia e dall’angoscia, insiste con frasi tipo “Mangia, per favore” oppure inizia a seguirla e a controllarla. Oppure quando un figlio, in preda ai deliri della malattia, urla, si fa del male, insulta gli altri o, al contrario, si chiude in camera piangendo e rimanendo al buio per ore, una madre tende a rispondere alle urla con urla, agli insulti con rimproveri, ai pianti con ulteriori ansie. Tutti questi comportamenti sono disfunzionali, come dicono i medici, ovvero rafforzano la malattia, fanno il suo gioco.
Ma un genitore non lo sa, non può saperlo.
Per questo deve essere accompagnato nel percorso di cura da un terapeuta per stare accanto al figlio nel modo giusto, per sostenerlo e contenerlo quando non sa sostenersi e contenersi.
Il figlio, la figlia malata, a sua volta, si sente chiuso in gabbia, prigioniero di un pensiero ossessivo che non lascia spazio ad altro, alla vita. Ma se il genitore diventa disfunzionale, il pensiero malato si rafforza e il figlio non potrà compiere il suo percorso che è quello di prendere consapevolezza, imparare a gestire i pensieri e le emozioni e diventare responsabile di sé. Il figlio malato troppo spesso si comporta in modo ricattatorio, egoista. Ma lo fa perché è guidato dalla malattia, i suoi comportamenti sono malati e lo sforzo del genitore deve essere quello di distinguere la malattia dal figlio, ma anche quello di lasciare che prosegua nella suo cammino.
Non credo che ci sia un incontro a metà strada, credo piuttosto che debba esserci un accompagnamento a distanza. Madre e padre accompagnano nel percorso il proprio figlio, sono vicini, ma il sentiero lo si deve percorrere da soli. Quando la persona malata trova i giusti terapeuti e la giusta équipe la famiglia deve compiere un grande atto di fiducia, affidare il figlio agli esperti e fare un passo indietro. I genitori devono sostenere e amare, non possono curare.
Uno dei momenti più intensi e difficili: il pasto. Come ci si può approcciare?
La tavola da luogo di convivialità e condivisione diventa un campo di battaglia. Il pasto è angoscia per il malato e per la famiglia. Quando un figlio spezzetta il cibo in mille pezzi, spalma le pietanze nel piatto, prende un chicco di riso alla volta, un padre e una madre provano un senso di soffocamento. Le reazioni e i pensieri sono i più disparati, dalla voglia di scappare, a quella di urlare, a quella di mettersi a piangere. Spesso nei genitori si accavallano sentimenti di disperazione, a istinti di rabbia e angoscia.
I terapeuti insegnano a restare il più possibile fermi, saldi. Non bisogna insistere se il cibo non viene finito, ma dire andrà meglio domani. Né si deve giudicare, guardare, controllare, ma il più possibile parlare di altro. Non è facile e non bisogna sentirsi in colpa se ogni tanto si perde il controllo. Anche i genitori sono essere umani. È fondamentale ricordare che il proprio figlio è malato e che il cibo, specie nelle prime fasi del percorso, è una parte della sua terapia.
Cosa diresti ai genitori di un ragazzo o di una ragazza che sta affrontando un disturbo del comportamento alimentare? Come si sente una mamma?
Una madre che vede il proprio figlio soffrire di un DCA non si dà pace. Inizialmente inizia a chiedersi cosa sia successo, cosa ha sbagliato, chi può aver influito nell’insorgere della malattia. Mi viene da dire che spaccare il capello in quattro per cercare una causa non serve a niente e a nessuno.
I DCA sono malattie multifattoriali come multidisciplinare deve essere la cura. Non basta lo psicologo-psicoterapeuta, spesso ci vuole anche lo psichiatra; serve poi il nutrizionista e tutte le figure (medici compresi) di un’équipe esperta in materia. Inutile sperare che le cose si risolvano da sole. Queste sono patologie serie e mortali che prima vengono prese in carico più hanno probabilità di risolversi.
Ad un padre e ad una madre che hanno un figlio malato direi di affidare immediatamente il figlio a professionisti, a medici specializzati in DCA e seguire le loro indicazioni, anche se difficili e dolorose da realizzare. Nella cura dei disturbi alimentari è fondamentale fidarsi e affidarsi a chi sa cosa bisogna fare. E soprattutto direi loro di non giudicare, perché chi si ammala non sceglie di ammalarsi. Troppo spesso ci si aspetta un atto di volontà da chi non è in grado di farlo.
Tendere la mano
È evidente che ad un certo punto della terapia, quando si diventa coscienti della malattia e dei suoi meccanismi, quando ci si stanca di essere malati, si dovrebbe fare quello scatto che spinge verso la guarigione. Quello scatto lo può fare solo il malato, non si sa quando o come e soprattutto il percorso di cura non è una strada dritta verso la meta, ma un sentiero tortuoso fatto di cadute, di inciampi, di discese e risalite. Una madre e un padre possono solo tendere una mano, far sentire il loro affetto e supporto al figlio. La strada la deve percorrere il malato, l’inferno lo deve attraversare chi sta male per poter risorgere. Ma soprattutto un genitore non deve avere fretta. Ed è la cosa più difficile.
Non deve avere fretta di vedere una guarigione che può essere più lenta e faticosa del previsto, che può essere diversa da come la si vorrebbe. L’atto di accettazione dei tempi del malato, delle modalità personali del suo percorso è l’atto d’amore più grande che un genitore possa fare. E al contempo il più difficile e doloroso.
E a quel ragazzo o a quella ragazza invece? Che cosa diresti?
“Non mollare, non ti spaventare di cadere, non smettere di rialzarti, non smettere di crederci, affidati a chi ti vuole curare, non perdere la fiducia in te”… E molto altro.
Troppo spesso, però, chi soffre di DCA non ascolta queste parole, questi consigli “banali”, fin troppo ovvi per chi sta bene, che scorrono come acqua sulla pelle di chi è malato. Non permeano l’animo, la sostanza. E questo non per mancanza di volontà, ma perché la malattia comanda la mente, l’anima, il cuore di chi soffre. I ragazzi malati di DCA vogliono sparire, annientarsi, sottrarsi alla vista degli altri e di se stessi. Quando la malattia è preponderante, si può solo far sentire la propria presenza, una presenza senza giudizio, senza sguardo indagatorio.
“Sono preoccupato per te, credo che tu abbia bisogno di aiuto”: questo è quello che un genitore può dire. Uno sguardo il più possibile amorevole, umano, non giudicante, comprensivo e affettuoso. Chi soffre deve sentire che ci siamo a prescindere dal suo stato, deve capire che chiedere aiuto non è un atto di debolezza, ma di forza. Avere la certezza che i familiari, le persone che ti vogliono bene ci saranno sempre, anche quando non si vede e non si sente nulla di buono perché la malattia anestetizza tutto, dolore e gioia, amore e tristezza.
Piano piano il malato acquista consapevolezza e riesce a riconoscere il valore degli affetti che gli sono accanto. Ma stare accanto non può e non deve significare cedere ai ricatti della malattia, convinti di aiutare così il proprio figlio e diventando invece complici di meccanismi perversi. Guarire si può e il malato arriva a crederci quando, nel percorso di cura, impara a distinguere sé dalla malattia e riconosce di essere accolto dai terapeuti e dai familiari. Solo allora può pensare di poter vivere e non sopravvivere a se stessi.