Mi chiamo Adela, e a volte i miei dati anagrafici mi sembrano l’unica cosa certa di me.
Spesso, soprattutto in passato, mi è capitato di dimenticare chi fossi. L’anoressia aveva occupato ogni angolo della mia mente ed io non ero più io. Ero solo un mezzo, uno strumento.
Non ho un ricordo ben nitido di quando tutto ciò è iniziato, ma sicuramente tra la prima e la seconda media. Ricordo, però, un giorno importante che mi porterò dietro a lungo.
Ero al lago con mio padre, facevamo un giro in moto ed abbiamo deciso di fermarci in una pizzeria. È stato proprio in quel luogo che per la prima volta ho provato quel senso di panico misto, successivamente, a disgusto e colpa. Da lì tutto è cambiato, poco alla volta. I primi anni non se n’è accorto quasi nessuno, anche se forse avevano solo paura di tirare fuori l’argomento.
Le medie sono state un periodo difficile, e il cambiamento, con l’inizio del liceo, forse ancora di più. Il nuovo assetto mi metteva in difficoltà. E poi la malattia di mio padre: un tumore maligno. In quel momento le cose sono diventate evidenti a tutti: stavo male, saltavo la scuola e corpo, e mente erano ormai assenti. Centro DCA, accessi al pronto soccorso, psichiatra, psicologa, avevo tutto l’aiuto necessario. Ma io non lo volevo.
Mio padre intanto è guarito, ma io ho perso l’anno e le cose non facevano che peggiorare, tanto che la mia maturità l’ho sostenuta mentre ero in struttura. È stato lì che ho capito che le cose così non potevano andare avanti, che sarebbe finita molto male.
Due frasi mi hanno permesso di “sbloccarmi” e necessito di riportarle qui.
La prima è: “È questa la vita che vuoi vivere?”
Me la ripetevano in tanti, spesso me la ripetevo io stessa, mi aiutava ad andare avanti. Mi aiutava ad immaginare prospettive diverse.
La seconda, invece, è: “Il caos è necessario per la rivoluzione”.
La ripeteva spesso il professore di storia del liceo durante le sue lezioni e devo dire che si applica bene anche alla vita. Rifletteteci, se vi va.
Ora le cose vanno meglio. Il mio cervello ha ripreso a collaborare col mio corpo, ed anche molto bene, aggiungerei! Mi considero guarita? Ancora no. Ho ancora tanta strada davanti, ma sono a buon punto, e non potrei far altro che darmi una pacca sulla spalla e dirmi “Manca poco, sono fiera di te”.
Vi riporto uno sprazzo del mio diario, penso valga la pena condividerlo con qualcuno:
Voglio arrivare a trent’anni, guardarmi indietro e dirmi “io ne sono uscita” con la fierezza di chi ha superato una guerra e ne porta ancora le cicatrici, perché di cicatrici ne ho tante, così tante che non saprei contarle. Mangerò tutto il necessario e prenderò peso.
Darò al mio corpo ciò di cui ha bisogno per funzionare, funzionare bene, e non importa se non entrerò più nei miei pantaloni preferiti, ne comprerò di nuovi, più belli ed io sarò più felice, perché una taglia non fa la felicità, la distrugge.
Come mi ha detto la cara Heidi, una volta uscita dall’anoressia ti aspetta un mondo splendido pieno di colori. Ed una volta che sarò uscita dal mio bozzolo, io lo so, lo sai anche tu, sarò una splendida farfalla, libera da ogni regola.
Il bozzolo non è altro che una gabbia sporca, puzzolente, dalle sbarre arrugginite e con dell’edera che ne ricopre alcune zone, non lasciando mai passare uno spiraglio di luce. Sta a noi darci una ripulita per ritrovare la chiave e la via d’uscita nascosta dalla fitta edera. Una volta fuori, il sole ci bacerà la pelle e ci ricambierà degli sforzi fatti con i tanti colori del mondo, lasciandoci alla meraviglia, all’amore ed alla Vita vera.
L’articolo è stato scritto da Adela, volontaria dell’associazione, che ha raccontato la sua storia