To the Bone – Una riflessione sul film “Fino all’osso”

La trama

Protagonista è Ellen, una giovane donna malata di un disturbo del comportamento alimentare, l’anoressia.

La sua storia familiare è complicata: il padre non appare mai nel film ma lo nominano soltanto e, pertanto, Ellen non ha alcun rapporto con lui. La madre biologica vive con un’altra donna in un altro paese. Le uniche figure presenti sono la matrigna Susan (attuale compagna del padre) con sua figlia, Kelly.

Sono proprio queste ultime, la famiglia “acquisita” di Ellen, che tentano in tutti i modi di convincere la protagonista a intraprendere un percorso di guarigione. Nonostante i tentativi, però, la ragazza non riesce mai a portare a compimento i percorsi iniziati e quindi Susan decide di darle un ultimatum: o si fa aiutare o la caccerà di casa, mandandola a Phoenix, presso la madre biologica.

Ellen, quindi, accetta di sottoporsi ad un’ultima terapia, presso la struttura diretta dal Dottor William Beckham, in cui vivono altre persone con disturbi del comportamento alimentare.

Il film racconta proprio il percorso di Ellen nella casa di cura, intrecciandosi con quello degli altri ragazzi, dimostrando come esso non sia una strada semplice e lineare. Il percorso di guarigione è come le montagne russe, si sale su e si scende giù, ma si va sempre avanti e, ad un certo punto, la giostra finalmente si ferma, ci si guarda dietro e si vede che quello che sembrava fare tanto paura è stato fatto ed è passato.

La verità nel film

Il film rappresenta alcuni tipici comportamenti disfunzionali di chi soffre di DCA, sia sul versante dell’eccesso che sul versante della restrizione alimentare; lo fa attraverso scene sicuramente crude, ma d’altronde così reali. Questa scelta è da apprezzare, poiché solo raccontando la realtà della malattia si può aiutare a comprendere quali siano i segnali di riconoscimento dei suoi sintomi.

Altrettanto veritiera è la mancata individuazione di una precisa causa dell’insorgenza della malattia. Sicuramente l’infanzia di Ellen non è stata facile; lei non si è mai sentita “accudita” dai genitori e, soprattutto dopo il loro divorzio, si è sentita abbandonata da entrambi. Questo è uno tra i fattori scatenanti la malattia, ma non l’unico in quanto i disturbi alimentari sono malattie multi-fattoriali ed ogni storia ha poi le sue peculiarità. 

Cosa prova chi soffre di un DCA?

L’abitudine

C’è una scena che mi ha colpito particolarmente e che merita un approfondimento (il che implica automaticamente uno spoiler): nel gruppo c’è un ragazzo, Luke, con il quale Ellen instaura un rapporto speciale. Lui riesce a farla aprire e ad infonderle fiducia. Una sera lui la invita a cena fuori, pur accettando la scelta della ragazza di non mangiare cibo. Nel corso della serata Ellen inizia ad aprirsi con Luke e a divertirsi. Inizia anche a mangiare, ma ogni boccone che mangia lo risputa in un fazzoletto.

Quale significato ha questo gesto? Una delle possibili letture riguarda la circostanza per cui esso voglia comunicare come la malattia agisca attraverso dei veri e propri “schemi mentali” nella falsa credenza che, attuandoli, si stia agendo nel modo corretto. Chi vive con un DCA è spesso soggetto ad automatismi che nemmeno comprende e di cui, talvolta, non si rende conto. La ragazza, pur essendo felice, pur avendo lo stimolo di mangiare, sputa…e lo fa con disinvoltura e automaticamente. Questo “automatismo” si legge anche nelle parole di Ellen durante una conversazione con il Dottor Beckham. Le viene infatti chiesto perchè lei continui a comportarsi sempre nello stesso modo e a ciò risponde con “Non riesco a smettere”.

“Non sono una persona sono un problema”

Quanta verità, seppur triste, in questa frase. Spesso chi si ammala perde la propria identità e si identifica con la malattia. Questo ha tante ripercussioni, soprattutto a livello sociale, poiché si allontanano tutte le persone vicine, credendo di essere un peso per loro. Tale pensiero, inoltre, potrebbe ostacolare la guarigione. La persona infatti non crede che le cose possano andare diversamente, in quanto ha perso o dimenticato la propria vita prima della malattia.

Questa frase, pronunciata dalla protagonista del film, può essere d’aiuto a far comprendere meglio lo stato d’animo di chi soffre di DCA e che spesso il suo isolamento e la distanza che ostenta nei confronti degli altri è solo un muro che viene innalzato per paura di non essere capiti in quanto ci si sente “un problema”.

L’importanza di chiedere aiuto

Il film dà un importante monito: per curare la malattia è necessario chiedere aiuto e, soprattutto, accettare tale aiuto. 

Ellen, solo alla fine del film, si rende realmente conto della gravità del suo stato e, solo in quel momento, accetta di doversi far aiutare. La consapevolezza è solo il primo step di un lungo percorso in cui è necessario cercare persone esperte che diano “la mappa” per raggiungere lo stare bene.

Cos’altro serve? Lo suggerisce Luke alla fine del film “Il coraggio è un pezzo di carbone che decidi di inghiottire ogni giorno”. Nell’immaginario di Ellen, Luke pronuncia questa frase quando lei prende coscienza di come è realmente e trova la voglia e la speranza di ritornare nella casa di ricovero per continuare il percorso con il Dottor Beckham. Ebbene, questa frase suggerisce un concetto importante: la guarigione si sceglie ogni giorno. Ogni giorno si può far qualcosa per invertire la rotta. Piccoli passi ma quotidianamente, senza fermarsi. 

E’ pur sempre un film

Bisogna tener presente che questo è pur sempre un film, non un documentario; come tale, esso presenta i “limiti” intrinsechi alla natura di un racconto che ha lo scopo di divulgare informazioni su un argomento di cui si parla poco (e spesso male), ma senza la pretesa di dover analizzare profondamente e tecnicamente i DCA.

In tale ottica bisogna valutare il trattamento terapeutico mostrato nel film. Non si comprende bene quale sia la funzionalità di un “sistema a premi”, dove le persone che vivono nella casa guadagnano punti se rispettano alcune regole, tra cui mangiare regolarmente.

Lo stesso può dirsi della descrizione della figura del terapeuta. Nel film ci sono poche scene in cui appare il Dottor Beckham. Le sue parole sono spesso parole ad impatto ma prive di reale sostanza. Dire “non c’è spazio per colpe o accuse ma solo per come vuoi vivere” oppure “Sei puerile se speri che qualcuno ti salvi. Le cose non vanno sempre bene” sono frasi, a parere di chi scrive, superficiali. La semplice sollecitazione ad avere coraggio non sembra costituire un vero e proprio trattamento terapeutico. Questo è sicuramente una parte del film che necessita di ulteriori approfondimenti.

Altrettanto poco comprensibile è la scena della pioggia: il Dottor Beckham decide di portare il gruppo in una stanza dove cade una pioggia finta. Così facendo i ragazzi, nel sentire la pioggia cadere sulla pelle, iniziano a sentirsi vivi e a comprendere come la vita sia bella. Anche questa scena è stata dettata, probabilmente, dalla necessità di romanzare una storia complessa e impegnativa, ma sicuramente è ben lontana dal descrivere una vera e propria terapia.

Perché guardarlo

Nel complesso, il film è da apprezzare per l’intento di sensibilizzare su questa malattia. Ci sono tante verità nel film, seppur alcune di queste vengano trattate con superficialità. È un film forte, coinvolgente. Bisogna sentirsi di guardarlo e sentirsi liberi di spegnere lì dove pensiamo che non ci faccia bene andare avanti. 

Sicuramente si consiglia la visione a tutti coloro che vogliano iniziare a comprendere meglio che cosa significhi soffrire di un DCA e quali possano essere i comportamenti esteriori sintomatici, così da intervenire prontamente e chiedere aiuto. E allo stesso tempo è importante ricordare che non si esaurisce tutto lì. I disturbi alimentari sono malattie complesse di cui il peso, il cibo e il corpo sono solo dei sintomi. Guardare questo film può far capire qualcosa in più sui sintomi, ma l’invito è sempre quello di andare oltre e capire realmente cosa ci sia dietro ad una sofferenza così grande. 

L’articolo è stato scritto da Maria Jose, volontaria dell’Associazione

Contenuto a cura di Animenta

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