Avevo 16 anni quando ho iniziato ad accostare al termine “bella” il termine “magra”. O meglio, avevo 16 anni quando questa visione del mondo è diventata un problema.
Frequentavo una scuola di danza nel minuscolo paesino in cui ho vissuto per 18 anni della mia vita e la mia maestra ogni anno, qualche mese prima del saggio finale, ci diceva chi doveva perdere qualche chilo per poter apparire al meglio sul palco. Non è una persona cattiva eh, per carità, è il mondo della danza ad essere fatto così. Io avevo imparato a convivere con la consapevolezza che il mio nome sarebbe stato ogni anno in quella lista.
Non mi faceva più male o almeno pensavo fosse così, fino al 2019. È difficile individuare il momento in cui è iniziata. Sono solita far riferimento al giorno in cui la mia maestra fece nuovamente il mio nome dopo anni, ma forse sbaglio.
Quando è iniziata..
È difficile ricordare quando è stata la prima volta che ho saltato un pasto e mi sono sentita soddisfatta dopo averlo fatto, la prima volta che ho fatto un’attività fisica interminabile per poi tornare a casa e dire “ho mal di pancia e non ho fame, vado a dormire”. La prima volta che mi sono guardata allo specchio e ho deciso di non essere abbastanza. Di non poter essere amata e apprezzata in quel corpo non abbastanza magro in cui mi ritrovavo a vivere. La prima volta in cui ho pianto guardando quel maledetto riflesso.
È difficile ricordare quei momenti. Eppure ricordo quando, arrivata al saggio di fine anno, la mia maestra mi disse che stavo benissimo, che ero dimagrita esattamente come dovevo. Ed è lì che è iniziato tutto. Restrizioni, controllo su ogni minima cosa, attività fisica costante, digiuni, bugie. Ho toccato il fondo senza rendermene conto, tanto da non riuscire più a reggermi in piedi, da avere una temperatura corporea estremamente bassa per chiunque, tanto da non avere la forza né la voglia di vedere le persone che all’epoca amavo di più, perché l’unica cosa di cui mi importava era vedermi sempre più piccola in quel riflesso che invece mostrava una figura sempre più brutta e abnorme.
Quel riflesso..
Quel riflesso, l’ho scoperto solo tanto tempo dopo, mentiva. Poi è arrivata la diagnosi. Disturbo alimentare, depressione, disturbo da attacchi di panico. Tutti paroloni che non comprendevo e che mi mandavano in bestia perché io stavo bene, non ero triste e non ero troppo magra. D’altronde dai, “anoressica” vuol dire solo essere estremamente magra. Ed è questo ciò che tutti pensano, ciò che anch’io pensavo, almeno finché non ho ospitato il mostro dentro di me, almeno finché non ho convissuto con le voci.
Ero anoressica ma non lo accettavo, perché io non ero abbastanza magra, anzi non lo ero affatto. A quel punto era tutto più difficile. Ero circondata da persone che avevano capito quale fosse il problema prima ancora che lo capissi io: volevo diventare piccola fino a scomparire, ma non per il semplice gusto di dimagrire, perché il problema dei disturbi alimentari non è mai il peso. Avevo bisogno di amore, un amore che mi era sempre mancato, quello della famiglia.
Da un estremo ad un altro
L’idea del ricovero era sempre più presente e necessaria, ma giorno dopo giorno iniziavo a sentirmi un po’ più amata grazie alle meravigliose persone che avevo intorno e mi feci forza, presi peso e l’idea del ricovero scomparve così come era arrivata. E sarebbe stato davvero bello se solo quella fosse stata la fine. È stato come se, dopo aver ricominciato a mangiare “normalmente”, si fosse creato un vuoto enorme nel mio stomaco che non si riempiva in nessun modo e così io mangiavo, mangiavo di tutto, per ore. E poi compensavo e piangevo, per ore. È arrivata così la bulimia, come un’amica che ti tende la mano e ti pugnala alle spalle. E poi ancora il binge eating, a dimostrazione di come non sia il peso a farti guarire da un DCA, perché il vero problema è radicato nel tuo cervello e nella tua anima e solo operando lì puoi sperare di risolverlo.
La “me bambina”
A salvarmi da me stessa, dai metodi di compensazione e dalle abbuffate che duravano ore, sono state le persone che mi amavano e che mi amano tutt’ora, è stata la me bambina che ha urlato più forte della voce del disturbo. Mi ha sgridata per come l’avevo ridotta e mi ha dato la forza di aprire gli occhi, un giorno, e vedere di nuovo il sole.
Mi sono ammalata di anoressia ad inizio 2019, di bulimia e binge a febbraio 2020 ed è stato un periodo così confuso, così pieno di crisi, di gesti autolesionistici, di giornate in cui guardavo il vuoto senza dire una parola, di inganni e fughe, che è difficile adesso ricomporre il puzzle senza perdersi nei meandri di quel dolore.
Solo adesso, a fine 2021, trovo la forza di parlarne e vivo le mie giornate con la consapevolezza di aver combattuto contro non uno, non due ma ben tre mostri e di esserne uscire a testa alta con moltissime cicatrici sì, ma a testa alta.
Sto camminando
Non sono guarita, o meglio non del tutto. Ancora oggi, ogni tanto, mi capita di guardarmi allo specchio in varie posizioni per capire se sono ingrassata o meno rispetto a qualche tempo prima. Mi capita di avere qualche minuto di tentennamento davanti alla domanda “Andiamo a mangiare una pizza?” o di mettermi nel letto la sera e dare vita ad una lista mentale di tutto ciò che ho mangiato durante la giornata.
Ma c’è un particolare che mi permette di dire che ho vinto io: quando la voce urla e la dà vita a tutti questi atteggiamenti sbagliati, io la scaccio e continuo a godermi la vita che ho la fortuna di poter ancora vivere. E allora faccio una smorfia davanti allo specchio, dico di sì a quella dannata cena fuori e invece di mettermi a controllare ogni cosa di quella maledetta lista mentale, chiudo gli occhi e mi addormento pensando a tutto ciò che mi sarei persa se solo non avessi scelto di vivere.
A lungo mi sono odiata, ora basta
Mi sono chiesta troppo spesso se fossi io il problema. Troppo spesso mi sono addossata colpe non mie scaricando sul mio stesso corpo e sul mio stesso cuore tutta la rabbia e la sofferenza date da una famiglia devastata, da amici persi e da prese in giro immotivate. Ritenere sé stessi un errore, un casino, un problema: guardarsi allo specchio e odiarsi, odiarsi di un odio che non riguarda solo l’ambito fisico ma che scaturisce da un profondo rifiuto interiore, mentale. Tutto questo fino a quando un giorno ti svegli e ti rendi conto che, forse, non sei così male. Che la vita a volte è crudele tu, nonostante tutto, stai sopravvivendo.
Sopravvivendo, non vivendo: è lì la svolta.
È così che, in un giorno qualunque, mi sono accorta di volere di più perché io non volevo sopravvivere, volevo vivere. Quando quel giorno è arrivato sono rinata. Mi sono ripresa la mia vita con forza, accanto alle persone che hanno deciso di restare al mio fianco e soprattutto con la persona che più di tutte merita il mio amore: io. Arriverà quel giorno e quando succederà non fatevelo scappare: aprite gli occhi, guardate il sole, sorridete e riprendetevi la vostra vita. Ve la siete meritati.
L’articolo è stato scritto da Angela Maria, volontaria dell’Associazione, che ha raccontato la sua storia