Non è mai facile parlare di cosa significa affrontare un disturbo alimentare. Non è mai facile raccontarsi, tanto meno per una persona come me che vorrebbe condividere ogni singolo istante della sua vita. Ci sono state così tante cose che sarebbero degne di essere raccontate in queste righe, così tanti attimi di gioia e di disperazione, così tante persone, così tanti sorrisi e così tante lacrime.
Mi chiamo Chiara e soffro di bulimia da 7 anni. La bulimia mi ha tolto tanto e, allo stesso tempo, mi ha insegnato tanto. Forse senza bulimia e senza il percorso di terapia non sarei diventata la persona che sono oggi.
Ma facciamo un breve passo indietro.
Cambiamenti
Ho 23 anni. Sono nata in un paesino vicino a Torino circondata dall’amore di mamma e papà, dei miei nonni e della mia famiglia. Ero una bimba felice. Sprizzavo gioia da tutti i pori ed ero estremamente positiva riguardo al futuro.
Con l’adolescenza qualcosa dentro di me ha cominciato a cambiare. Io non avevo voglia di crescere, avrei voluto rimanere per sempre in quel corpo da bimba senza seno e tutto muscoli.
A 15 anni ho deciso di lasciare il nido e volare via per fare l’anno all’estero. Mi avevano detto che quell’esperienza mi avrebbe cambiata, ma mai avrei immaginato che avrebbe significato così tanto.
Ero abituata a vivere in una famiglia in cui l’amore non è mai mancato per nessuno, non è una famiglia perfetta, ma è la mia famiglia e non la cambierei per nulla al mondo.
Un’esperienza all’estero
Durante il mio anno all’estero, che poi si è ridotto a 6 mesi e mezzo perché quell’esperienza stava diventando insostenibile, ho scoperto cosa significasse il dolore, quello vero. Ho capito cosa significasse non sentirsi amati da nessuno e cosa significasse sentirsi soli al mondo.
Mi era stato fortemente sconsigliato di parlare con i miei genitori dei problemi che incontravo durante l’esperienza, così mi sono tenuta tutto dentro. Pensavo di riuscire a farlo bene e di essere forte abbastanza. Invece ho iniziato a riempire quel vuoto che sentivo dentro con il cibo e quando ho iniziato a non piacermi più ho scoperto una tattica, anzi due, che parevano infallibili e utilissime per non ingrassare nonostante il cibo ingerito.
Sono tornata a casa perché avevo smesso di vivere realmente: le calorie continuavano a scendere ogni giorno, avevo smesso di dormire la notte perché avevo paura del mio padre ospitante (dal quale purtroppo ho subito delle molestie) e l’unica cosa che volevo era sparire dal mondo.
La scuola
Quando sono tornata, la scuola è stata la mia ancora di salvezza. Avevo così tanto da fare che neanche avevo tempo per pensare al mio corpo e al cibo. Mi ero messa a dieta e stavo dimagrendo, ma tanto non sarei mai diventata magra abbastanza. Pensavo che tornare a casa fosse la soluzione a tutti i miei problemi e per un po’ di mesi è stato così. Ma poi, vedere le mie amiche fidanzate e sentirmi sempre il brutto anatroccolo in ogni situazione, mi ha fatto cadere nuovamente nella mia spirale. Io ero quella indesiderabile. La ragazza che non sarebbe mai piaciuta a nessuno.
Quel corpo in cui ero obbligata a vivere era la mia gabbia, la cosa con la quale dovevo interfacciarmi con il mondo.
Indipendenza
Alla fine del liceo ho deciso di trasferirmi a Trieste per l’università. Ero contentissima di poter finalmente gestirmi da sola i pasti. Ho iniziato a ridurre sempre più la mia alimentazione, finché non ho cominciato a mangiare tutto ciò di cui mi ero privata per poi cercare delle soluzioni per non sentirmi in colpa.
Continuavo a essere convinta di essere io a controllare tutto, ma mi sono resa conto che non era così. Finalmente dopo 4 anni mi sono convinta a chiedere aiuto e ho iniziato il mio percorso di psicoterapia.
Dopo ogni seduta uscivo con una sicurezza in meno, ma con una maggiore consapevolezza di quanto io stessi solo facendo finta di stare bene. Ci ho messo un anno ad ammettere effettivamente a me stessa di non stare affatto bene e ho cercato di risalire la china.
Poi è arrivato il lockdown, il momento apparentemente più idilliaco della mia vita. Mi ero creata la mia routine: mi allenavo quasi ogni giorno e, dopo aver fatto allenamento, doccia e colazione, comprato giornale e latte per i nonni, mi mettevo a studiare fino alla sera tardi. Mi ero creata la mia routine anche nei pasti, riuscivo a togliermi qualche sfizio quella volta a settimana in cui cucinavo la pizza per tutta la famiglia o quando abbiamo fatto la grigliata per Pasquetta. E mi bastava così.
A inizio maggio 2020 sono rientrata a Trieste e sono ripresi gli aperitivi con gli amici, gli inviti a pranzo o a cena e la mia ossessione per il mio schema alimentare e per l’attività fisica erano diventate sempre più limitanti.
Durante l’estate sono tornata a casa e ho perso ogni tipo di controllo: mi sono ributtata sul cibo con tutta me stessa. Mio nonno non stava bene e io sentivo di non avere il diritto a stare male perché c’era qualcuno che stava peggio di me e che aveva più bisogno di me. Mi sono annullata, dimenticata di me stessa e della mia salute perché c’era qualcuno che stava peggio di me.
Ma nessuno l’aveva preteso. Nessuno mi aveva chiesto di farlo.
Ultimo anno
“Chia che figo, ma non sei contenta di laurearti quest’anno?”, mi chiedevano gli altri. “Ma il fondo l’avrò già toccato? Ma quando arriva? Sono esausta, stanca, sfinita!”, mi dicevo io.
Sono tornata a Trieste per finire il mio ultimo anno di triennale ed è stato l’anno più faticoso e allo stesso tempo ricco di emozioni della mia vita. Ho vissuto momenti di disperazione estrema e altri in cui invece, riguardando indietro, mi sono resa conto di aver fatto una marea di passi avanti.
Ho cominciato ad allenarmi con la mia coinquilina e con altri amici. Ero iperdeterminata ad arrivare all’estate con un fisico da invidia (che poi che cosa voglia dire “da invidia” devo ancora riuscire a capirlo) e ho fatto di tutto per riuscirci. Ho iniziato a seguire una fitta routine in cui controllavo ogni cosa. Ma non ero felice.
Non sono riuscita a godermi nessun traguardo raggiunto quest’anno perché riuscivo solo a vedere il negativo delle cose. Io mi vedevo male, mi vedevo brutta e non mi vedevo mai magra abbastanza. Mi sono rovinata tutte le feste di laurea perché ero terrorizzata dal cibo e dal pensiero che sarei ingrassata e mi sono rovinata tanti momenti che altrimenti sarebbero stati momenti di felicità.
Stare e restare vicino a qualcuno
Rendo grazie ogni giorno per le persone che ho avuto accanto in questo anno: mi sono state accanto quando le uniche cose che riuscivo a far uscire erano lacrime amare, quando urlavo per la disperazione e non riuscivo nemmeno più a respirare.
Rendo grazie per quelle persone che hanno cercato di fare di tutto per includermi in qualsiasi cosa facessero. A quegli amici che agli aperitivi in casa mi facevano trovare le mie adorate carotine con l’hummus di ceci in modo che io fossi tranquilla. A quelli che non si lamentavano se agli aperitivi io prendevo l’acqua e nulla di più.
Rendo grazie perché ho trovato delle persone che sono state in grado di non giudicarmi e di starmi accanto in silenzio e che mi hanno sostenuta nei momenti in cui ne avevo più bisogno.
Rendo grazie per aver avuto la possibilità di riscoprire il bene che possono fare le relazioni umane.
Un nuovo inizio
“If Winter comes, can Spring be far behind?”
da “Ode to The West Wind di P. Shelley”
Dopo l’esperienza all’estero mi ero convinta di non avere più diritto ad avere una famiglia. Di essere da sola e di dover risolvere tutto da sola. Difficilmente parlavo dei miei problemi con la mia famiglia perché non volevo farli preoccupare e perché ritenevo i miei problemi solo degli inutili capricci che potevo benissimo gestire da sola.
Quest’anno ho scoperto e ho sentito di nuovo di avere una famiglia. Mi sono aperta con i miei genitori e ho tirato fuori tutti quei non detti degli ultimi anni.
Ho scoperto…
Non è stato facile per loro capire come io stessi. Mi hanno fatto stare peggio in molte occasioni dicendomi che dovevo solo avere “forza di volontà” per tirarmi fuori dalla situazione, ma alla fine hanno capito come fare per stare al mio fianco e fungere di nuovo da rifugio in mezzo alle intemperie.
Ho perso tanti amici perché non sono più stata in grado di stare al loro fianco: per la prima volta ho capito di aver bisogno io di me stessa e di non avere più abbastanza forze per esserci per gli altri.
Ho scoperto che l’egoismo, quello buono, che io avevo condannato per tutta la mia vita, sarebbe stata la mia unica via di uscita.
Sono riuscita a rendermi conto di quanto affetto e amore mi abbiano mostrato le persone a me vicine, anche nei giorni più bui e difficili. Ho piano piano ricominciato a sentire l’amore degli altri. A vedere il bello nelle persone e nelle cose. Ho ricominciato a sognare e a lottare per realizzare i miei sogni.
Ho ricominciato a sentirmi viva e a vivere sul serio
Sono finalmente riuscita a rimettere insieme tutti i pezzetti che avevo perso per la strada.
Il mio sarà ancora un lungo cammino perché la relazione col mio corpo ancora oggi mi mette molto a disagio. Ma ora so di avere in me stessa una nuova alleata che non mi abbandonerà e trascurerà più.
La mia bulimia è stata la mia più cara amica in questi ultimi 7 anni, il mio più fedele aiuto: c’era sempre, non si lamentava se ero triste e potevo sempre contare su di lei.
Ma alla fine ho riconosciuto nella bulimia un’amicizia nociva che piano piano dovevo eliminare dalla mia vita se volevo stare bene veramente.
Trasformazione
Ho cominciato a guarire quando ho deciso di non odiare la mia bulimia. Ho iniziato ad apprezzarla per tutto quello che mi aveva dato negli anni in cui era stata al mio fianco e ho deciso di iniziare a lasciarla andare perché mi aveva già dato tutto quello che poteva darmi e non mi era più utile in nessun modo.
In una diretta su Instagram una persona ha detto “La malattia è tutto ciò che resta quando tutti se ne vanno”.
La chiave per l’inizio del mio processo di guarigione è stata proprio questa frase. Mi sono resa conto che in realtà nella mia vita non tutti se ne erano andati. Quindi quella malattia per me non aveva più senso di esistere e doveva essere eliminata.
Ho deciso di scrivere questa storia perché non voglio pensare che il mio dolore sia stato inutile e voglio trasformarlo in qualcosa di produttivo, un aiuto per chi ha bisogno.
Spero che queste mie parole riescano a dare speranza a chi legge, perché fino a 3 mesi fa mi sembrava impossibile riuscire a guarire e invece ora ho iniziato a vedere che esiste la luce in fondo al tunnel e sono sicura che riuscirò ad arrivarci.
E ci arriveremo tutti e torneremo a brillare.
L’articolo è stato scritto da Chiara, volontaria dell’associazione, che ha raccontato la sua storia