Da anni e anni, ormai, la diet culture ha preso piede nella società occidentale, favorendo una vera e propria ossessione per la magrezza, l’esercizio fisico e il mangiare sano. Ma quali sono le sue radici più profonde?
La diet culture e il privilegio dell’uomo bianco
La diet culture è strettamente connessa alla grassofobia, letteralmente la paura del grasso. Se il corpo magro è idealizzato come unico standard di bellezza e salute perseguibile, parallelamente, il corpo grasso è demonizzato come indice di malattia, pigrizia, incapacità di gestire il proprio rapporto col cibo.
Approfondendo l’origine della grassofobia, si risale, secondo vari studi, all’epoca del colonialismo occidentale. Anche la magrezza, insieme al colore della pelle, infatti, era considerata uno degli elementi distintivi della ‘superiorità della razza bianca’ (white supremacy), come simbolo di autocontrollo e moderazione, opposto alla lascività che invece si attribuiva alle popolazioni nere colonizzate.
E’ così quindi che la grassofobia si è diffusa contestualmente al razzismo, e non a caso, la diet culture, come la colonizzazione, è basata sull’imposizione di un modello come l’unico giusto da seguire.
Nero e grasso come intollerabile perchè diverso dal modello di riferimento bianco e magro. E’ un concetto, questo, che è stato col tempo interiorizzato e stereotipato. Proviamo a pensare, per esempio, a come vengono solitamente raffigurate le donne nere: quasi sempre con corpi in sovrappeso, dalle curve morbide e con seni o fianchi “abbondanti”.
Tutt’oggi, se ci pensiamo, il messaggio che passa con la diet culture è chiaro. Essere in grado di controllare il proprio peso, la propria alimentazione, la propria forma fisica è motivo di superiorità. Il privilegio dell’uomo bianco si è tradotto nel privilegio dell’uomo magro.
E’ innegabile infatti che una persona con un corpo magro sia privilegiata nella società odierna rispetto ad una persona con un corpo grasso. Prendiamo ad esempio il body shaming: ne sono vittime in particolare le persone in sovrappeso, insultate per la loro forma fisica ed etichettate come sedentarie, senza forza di volontà, incapaci di seguire una dieta. Vi sono anche aspetti più pratici in cui si può notare una discriminazione verso i corpi considerati non conformi. Nei negozi di abbigliamento si trova solo un certo range di taglie, quelle considerate standard. O ancora, sui mezzi pubblici i sedili e gli spazi sono progettati per corpi magri.
Quali sono le conseguenze?
Essere vittima di discriminazioni può provocare nella persona un senso di inadeguatezza che spesso si traduce in un tentativo di omologazione. Questo però rischia di dare libero spazio all’insorgere di disturbi psicologici.
Una persona nera, ad esempio, che interiorizza il pregiudizio di ‘nero quindi grasso’, può sentire il bisogno di dimostrare di avere un corpo conforme per non essere discriminata. Per farlo, può iniziare ad esercitare controllo sul cibo, rischiando così di andare in contro ad un disturbo del comportamento alimentare.
Cosa possiamo fare per decostruire il pregiudizio?
Quando un pregiudizio viene interiorizzato, è ancora più difficile lavorare sulla sua decostruzione. Il primo passo che possiamo fare è cercare di aprirci la mente, spaziare nei contenuti dai quali prendiamo informazione. Per fortuna, al giorno d’oggi, con una piccola ricerca si possono trovare testimonianze e vari profili social che danno voce e nome alle discriminazioni legate al corpo e al colore della pelle.
Da parte nostra, soprattutto se siamo nella condizione di essere bianch* e magr*, è importante riconoscere che il nostro punto di vista è etnocentrico. Inoltre, esso è influenzato da credenze che si sono tramandate per secoli nella nostra società. Serve riconoscere i privilegi di cui tutt’oggi godiamo per la nostra condizione fisica ed etnica. Serve togliere il focus da noi stessi per ascoltare gli altri.
Solo così si può iniziare a costruire uno spazio non-giudicante ed inclusivo, che è sempre la miglior medicina contro ogni tipo di discriminazione.
L’articolo è stato scritto da Silvia, volontaria dell’Associazione