Il diritto alla cura – l’esperienza di Francesca

Mi chiamo Francesca, sono una e tante, una delle tante ragazze che per vedersi riconosciuto il diritto di cura si è dovuta scontrare contro il muro della burocrazia, un muro eretto da numeri, codici e regole sorde. 

Se questo è poi accompagnato da scarsa conoscenza verso il problema e dalla perfidia del Disturbo Alimentare, allora, quello che dovrebbe essere un percorso di cura, diventa una vera e propria corsa ad ostacoli. 

Già, perché il mio nome ha tardato nell’essere preso in considerazione, ma alla fine è stato infilato tra le scartoffie di cartelle dedicate ai Disturbi Alimentari, in mezzo a quei termini medici difficili che tradotti in linguaggio comune recitavano cose del tipo: 

La ragazza rifiuta il cibo e rifiuta se stessa. Ha freddo ed il suo peso continua a scendere. Non si sente più una donna e il suo corpo lo conferma. La ragazza non si sente in grado. Ha paura di essere toccata perfino dagli abbracci della madre. La ragazza non può tenere tra le braccia un bambino.La ragazza si è fatta carico di una strana colpa di cui non conosce il nome. Si sente piena di vuoto, inconsapevole della gravità della patologia che fatica a definire malattia. La ragazza vorrebbe solo dormire e forse non svegliarsi più…”  

C’era questo e tanto altro fra quelle righe. C’era la gravità di un corpo che continuava a scomparire…

L’importanza di un aiuto concreto e immediato 

Eppure non ero sola, c’era la mia famiglia con me, e due dottoresse che lavoravano con me e per me. Le vedevo settimanalmente, ma di volta in volta le scale dei loro ambulatori si facevano sempre più pesanti.  E se è vero che come dicono i più grandi “L’amore ti salva”, fu in quel periodo che scoprii che non era proprio così…L’amore da solo non bastava, serviva un intervento tempestivo che mi abbracciasse in tutto: testa, corpo e anima; un intervento che mi accettasse in quanto paziente e contemporaneamente come Francesca. Un intervento senza limiti di tempo.

L’ennesimo scoglio da superare

Ma come se tutto questo caos non fosse bastato, mi venne sbattuto in faccia un altro numero, l’ennesimo, quello che ancora oggi, a distanza di quattro anni, fa tornare prepotente l’amaro in bocca. 

In quell’ufficio al quarto piano la signora mi dice che il mio ricovero fa saltare i conti dei bilanci della regione Sardegna; che “se mi impegno posso farcela, basta soltanto un po’ di forza di volontà e tante cose buone da mangiare, in questo modo prima o poi la fame sarebbe tornata.” Che idiozia.

Ci sono volute visite da uno psichiatra, unico specialista qualificato in materia di DCA della mia provincia di residenza, per certificare su un foglio la mia patologia; più di dieci incontri in cui descrivevo i miei pasti. 

In quegli appuntamenti venivo interrogata solamente sull’apporto calorico, nessuno mi mai chiese “Come stai?”, domanda a cui, fingendo, avrei probabilmente risposto “Bene”, magari mi sarei sentita almeno minimamente ascoltata. 

Fu una figura del mio Comune, alla quale chiesi aiuto, a dirmi, dopo due mesi, che il Centro di Pontremoli mi aspettava l’11 dicembre 2018. Mancavano dieci giorni e qualcuno dall’altra parte del mare mi avrebbe aiutata a perdonarmi e poi ad amarmi. In quei dieci giorni fui circondata dall’amore instancabile della mia famiglia, del mio compagno e delle mie psicologhe.  

L’arrivo al Centro ed il mio nuovo ruolo da protagonista  

Scendendo dalla nave mi parve di approdare in America: pochi bagagli, tanti libri, penne e un “senso di privilegio”. Mi sentivo una ladra che era riuscita, per qualche strano e fortunato motivo, a raggiungere un Centro di cura residenziale a discapito di chi invece, perso tra le linee guida poco chiare e sorde, veniva sbeffeggiato dalla “Signora burocrazia”. Per fortuna nel Centro mi insegnarono a praticare, forse per la prima volta, del benedetto amor proprio. 

Ripartimmo dalle basi, fu un lavoro continuo, in cui io ero artefice e protagonista. Fu un percorso necessario che non si esaurì con le dimissioni arrivate sette mesi dopo. Per stare bene ci vuole coraggio, ma anche tempo, costanza e tanto impegno

Tra la gratitudine che provai ci fu la gioia delle mie seconde prime volte. Incredibile come il cibo iniziava a riprendere sapore… Mai come allora mi sentii così ingorda di vita, e mai sazia

Ero felice di sporcarmi le mani, ero felice di rivivere la condivisione e la normalità. 

Non fu certo semplice tornare alla vita “normale”: tornare all’improvviso a vivere come facevo prima di rompere il patto d’amore con il mio corpo. 

Il mio tempo ed il mio equilibrio 

Ad oggi il mio percorso non si è esaurito, continua ogni giorno, ma ora ho consapevolezza. Adesso so dare il giusto nome alle cose. Ho gli strumenti giusti per potermi difendere quando la mia vulnerabilità rischia di travolgermi. Ho gli strumenti per arginare il caos e per trattarlo come merita. Ad oggi ho smesso di ricercare un equilibrio perfetto: all’immobilità di un finto equilibrio perfetto ho preferito i balletti scoordinati, fuori tempo, ma pur sempre dentro il mio, di tempo.

L’articolo è stato scritto da Francesca, volontaria dell’Associazione

Contenuto a cura di Animenta

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Pasta Secca 500g

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Prodotto e Confezionato da G.F.sas di Focaraccio Giuseppe
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