L’importanza della rappresentazione delle minoranze nel mondo dei DCA

l'importanza della rappresentazione delle minoranze nel mondo dei DCA

Siamo tutti esseri umani: fragilità, insicurezze, paure e sofferenze sono cose che ognuno di noi sperimenta nella propria vita. Queste, in base al carattere e alla personalità di ciascuno, vengono affrontate e vissute in maniera diversa. Possono essere emozioni passeggere, oppure profonde e radicate, fino ad arrivare ad una situazione in cui l’individuo da solo non è in grado di uscirne. Questi sono casi di disagio e malessere psicologico che solo un professionista è in grado di gestire. 

I comportamenti alimentari disfunzionali spesso vengono utilizzati per esprimere questo dolore. Causati da una serie complessa di fattori, i disturbi del comportamento alimentare (DCA) risultano essere comportamenti patologici che si possono sviluppare in chiunque, a prescindere da sesso, etnia e corpo.

In questo articolo vedremo come le persone appartenenti a minoranze etniche, come ad esempio le comunità nere, incontrano difficoltà nel momento del bisogno.

Lo stereotipo SWAG

Le modalità di esternalizzazione di un’emozione variano da persona a persona: non tutti agiamo nella stessa maniera. Siamo persone e non esistono le istruzioni per il nostro funzionamento. 

Nonostante questo, sembra che spesso gli stereotipi vincano sulle verità, anche nel contesto dei DCA. 

SWAG (skinny, white, affluent girl): ragazza magra, bianca, benestante. Questo è l’emblema dello stereotipo legato ai DCA. Questo stereotipo delinea un unico tipo di persona malata di DCA, escludendo le minoranze etniche e disabili. Inoltre, delinea anche un’unica tipologia di DCA possibile, ovvero l’anoressia nervosa. Il problema dei luoghi comuni è che si diffondono facilmente nella percezione pubblica, diventando l’unica forma possibile e valida. 

Questa rappresentazione ha un forte impatto nel campo del recovery dai disturbi alimentari. Secondo la mentalità SWAG, solo se si è di fronte ad una ragazza magra, allora si può diagnosticare il DCA. Di conseguenza, è possibile osservare un’enorme difficoltà nel ricevere il sostegno adeguato e le diagnosi in campo di DCA da parte delle comunità nere. 

I problemi di accesso alle cure: i dati delle comunità nere

In un articolo pubblicato da Project HEAL di Leslie Jordan Garcia impariamo che recenti studi hanno iniziato a far luce sulla “prevalenza dei disturbi alimentari tra i neri, mettendo in discussione il mito di lunga data secondo cui la malattia è esclusiva delle popolazioni bianche”. 

La scrittrice ci riporta i dati di studi secondo cui gli adolescenti neri “hanno il 50% di probabilità in più rispetto alle loro controparti bianche di manifestare comportamenti bulimici, come abbuffate e vomito” e “le donne bianche ricevono una diagnosi nel 44% dei casi, mentre alle donne nere viene diagnosticato solo l’11% delle volte”

Si può allora arrivare alla conclusione che i professionisti sono spesso fortemente influenzati dalle loro credenze razziali. Ma l’effetto di questo comportamento si ripercuote ovviamente sul/lla paziente di colore, la quale viene trattat* e curat* come il resto delle persone. Quindi, se la diagnosi non viene fatta, non è nemmeno possibile ottenere le cure necessarie. La malattia mentale è invisibile, ma la richiesta di aiuto non può esserlo. Queste statistiche allarmanti evidenziano la necessità di una maggiore rappresentazione delle persone di colore nello spazio di diagnosi, oltre che in quello di recovery

Dal punto di vista dei professionisti: la rappresentazione delle minoranze al lavoro

Oltre all’esclusione del paziente, esiste una reale esclusione di professionisti di colore, tra cui dietisti e psicologi, figure principali nel percorso di recovery. È stato osservato che se terapista e paziente condividono la stessa lingua e lo stesso background culturale il feeling e la fiducia si instaurano molto più in fretta. Questo influenza profondamente il processo di guarigione. La sensazione di essere capiti e compresi in modi che vanno oltre a ciò che viene espresso a parole può essere un enorme spinta verso la guarigione.

“È dimostrato che i risultati del recupero migliorano notevolmente quando i clienti hanno accesso a terapeuti e operatori sanitari che condividono il loro background razziale o culturale”.

In una situazione come quella legata ai DCA, dove la necessità di un supporto psicologico e/o psichiatrico è urgente, l’includere professionisti con diversi background e origini può produrre un enorme cambiamento nel sistema di presa in carico e cura di un/una paziente. Si tratta semplicemente di un’arma migliore per instaurare un legame di fiducia col proprio terapista e, quindi, per guarire. 

È quindi necessario abbandonare l’ideale stereotipato di questa (e qualsiasi altra) malattia cercando di creare un ambiente di cura più inclusivo ed efficace a livello culturale e strutturale, non solo per il benessere della paziente sul lato psicologico ma anche pratico (es. raccomandazioni dietetiche culturalmente rilevanti) attraverso una formazione e un costante aggiornamento di stampo inclusivo.

La mancata diagnosi all’interno delle minoranze etniche: le comunità nere

In un articolo datato febbraio 2024, Maggie Ryan ci spiega che troppo spesso i disturbi alimentari nelle persone appartenenti a comunità nere non sono diagnosticati.

Questa mancata diagnosi è, secondo l’autrice, legata ai numerosi stereotipi e pregiudizi attorno alle comunità nere. A queste comunità viene spesso automatico associare la sinuosità delle forme, delle curve, la pienezza di una ragazza di colore. Ne deriva che lo sviluppo, e soprattutto la diagnosi, di un disturbo del comportamento alimentare viene accantonato. Ma è giusto che uno stereotipo limiti il diritto alla salute di un individuo?

Con i dati alla mano forse è possibile sfumare lo stereotipo: “Secondo la National Eating Disorder Association, gli adolescenti neri hanno il 50% di probabilità in più rispetto agli adolescenti bianchi di presentare comportamenti bulimici”. Quindi, non esiste solo l’anoressia, non esiste solo un tipo di anoressia. Non esiste un unico tipo di corpo che soffre, non esiste un solo colore della pelle che sta male. Quello che spesso viene dimenticato nei discorsi attorno ai DCA è che si tratta di disturbi mentali: chiunque, a prescindere dal corpo o dal colore della pelle, può soffrirne. 

Ancora, Maggie Ryan ci fa riflettere: “Se ad una persona di colore viene diagnosticato il diabete, il medico si informerà su eventuali abbuffate, che potrebbero contribuire alla diagnosi?” Ovvero, il medico andrà oltre i suoi bias cognitivi riguardo all’appartenenza etnica di un/una paziente per indagare le possibili cause scatenanti di una patologia medica? Riconoscerà il potenziale rischio di un disturbo alimentare anche in una persona parte di comunità nere?

Utilizzare approcci terapeutici culturalmente inclusivi

La formazione dei professionisti e di tutte le figure che entrano in contatto con i disturbi alimentari deve essere in costante evoluzione. C’è bisogno di investigare e di sapere, di conoscere e di adattare e, se serve, anche di stravolgere o criticare le conoscenze già diffuse. Oltre ad utilizzare una strategia/terapia individuale è necessario utilizzare “approcci terapeutici culturalmente sensibili e inclusivi”. Studi, indagini, questionari e ricerche sono la base di partenza per comprendere meglio la realtà ed elaborare poi un piano di azione efficace per il trattamento di questi gruppi. Stigmi, stereotipi, ideali, pregiudizi, credenze, norme, cliché, modelli standard non sono ammessi. 

Lo scambio di idee, il dialogo, l’ascolto e il rispetto sono i punti cardine per iniziare a vedere nuove prospettive e far progredire questo campo d’azione con la creazione di spazi e strutture inclusive. La partecipazione a gruppi e conferenze con professionisti e pazienti di diverse realtà è il metodo più facile per conoscere ed informarsi. 

“La responsabilità nella promozione della rappresentazione delle popolazioni razziali ed etniche storicamente emarginate nel campo dei disturbi alimentari: una chiamata all’azione” è il titolo di un interessante articolo che cerca di trovare i punti da migliorare al fine di avere una rappresentazione più inclusiva per le minoranze.

Gli autori sono sostenitori del “miglioramento della giustizia, dell’equità, della diversità e dell’inclusione razziale/etnica (justice, equity, diversity, and inclusion – JEDI). Questi passi sono delineati al fine di sfidare il nostro settore a riflettere la diversità della nostra comunità globale. Dobbiamo sviluppare e implementare le misure per valutare i nostri progressi verso l’aumento dell’inclusione della diversità dei gruppi razziali/etnici sottorappresentati e per affrontare le questioni JEDI nei nostri fornitori, pazienti e partecipanti alla ricerca”. JEDI è la parola d’ordine.

Verso l’inclusione delle minoranze etniche

Per raggiungere l’obiettivo (o per lo meno provarci) serve un livello di sensibilizzazione culturale non da poco. Le differenze culturali esistono infatti soprattutto nelle pratiche alimentari e questo è un tassello significativo da tenere a mente. La stessa percezione del corpo e la cura della salute mentale cambiano da un luogo all’altro e come la cultura si diffonde e si importa. È necessario includere anche queste consapevolezze per dare un accesso equo alle risorse sanitarie. 

La strada è forse lunga, ma possibile. Collaborazioni, partecipazioni a programmi etnici, assistenza, sensibilizzazione e coinvolgimenti servono per consapevolizzarsi e iniziare ad ampliare i propri orizzonti e la propria visione delle cose, rendendo possibile l’inclusione delle minoranze. I professionisti dell’equipe medica multidisciplinare hanno bisogno di ricevere le giuste carte per ridurre le disparità esistenti e migliorare le cure per le minoranze etniche. 

Inoltre, è necessario superare anche l’idea che il disturbo mentale crea debolezza e vergogna. Il disturbo mentale è valido e degno di ricevere aiuto in qualsiasi sua forma e grado. 

L’articolo è stato scritto da Ilaria, volontaria dell’Associazione

Contenuto a cura di Animenta

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